UNA GIORNATA IN CAMPAGNA

  O rus! quando ego te aspiciam?

Orazio 

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   Io sono sempre restio ad accettare inviti di pranzo, e massimamente in campagna, dappoichè non amo di rompere le mie tranquille assuefazioni domestiche; e sovrattutto mi piace di pranzare con ogni comodità, e senza veruna cosa che fisicamente e moralmente mi desse fastidio. Epperò avevo molte volte ricusato i replicati inviti che il mio amico Federico B… mi facea di andare a pranzo ad una villetta che egli possiede sulla ridente collina di Posillipo: tanto più che io so per esperienza che quelle cose nelle quali noi crediamo di trovare alcun diletto, riescono per lo più noiose e moleste!.. Ma finalmente domenica scorsa, essendomi levato un poco più per tempo, vidi i raggi del sole che saettavano d’una luce viva e serena i vetri del mio balcone, i quali scioglievansi in rugiadose lagrime prodotte dall’umidità della notte. Aperte le imposte, sentii carezzarmi il volto da un’aura ricca di profumi e di vita. Confesso che una bella giornata d’inverno mi seduce e mi trasporta per modo che io non respiro più che idee di allegria, e progetti di piaceri. Oh, dissi fra me, questa mattina farò una violenza a me stesso, profitterò dell’invito di B… e me ne andrò da lui a pranzar a Posillipo.

   Arrivai da Federico allo scocco delle undici. Avrei potuto prendere una vettura per giungere più presto, ma oltre che io penso sempre all’economia, stimai più piacevole il passeggiare a piedi, essendo una bella giornata, e dovendo percorrere una strada ridente. Dimandai conto dei padroni di casa, ma non ne vidi alcuno. Federico stava occupato nei campi, perché il mio amico è un furioso dilettante agricoltore, sua moglie era ita ai sacri uffici della domenica, la signorina Paolina, figliuola di Federico, stava ancora a letto. Il domestico che mi dava questi ragguagli si ritirò invitandomi a sedere sopra un canapè… io mi sedetti rassegnandomi a sopportare in pace un paio d’ore d’ozio e di noia. Ma pochi momenti non erano ancora scorsi, che mi vidi assalito da cinque ragazzi, i quali si diedero a saltare sulle mie ginocchia menando i più fieri gridi del mondo, e volendo per forza farmi giuocar con loro alla gatta cieca. – Diascine, dissi tra me, non sapeva che Federico avesse questa covata in casa.

   «Voi siete dunque tutti figliuoli di Federico?» domandai loro col sangue agli occhi per lo sdegno di essermi così crudelmente ingannato sul conto che io facea di non tenere il mio amico più figliuoli all’infuora di Paolina.

   «No signore – risposero in coro i cinque fratelli – noi siamo i figli di Don Ambrogio il notaro, e pranziamo tutti qui sta mattina».

   Che consolazione!! Mi venne il pensiero di svignarmela senza nulla far conoscere a Federico della mia venuta; ma temetti a ragione un’indiscrezione del domestico, e m’acconciai l’animo a passare una giornata DIVERTITA.

   Dopo due ore di aspettativa, e dopo aver sofferto le pene più atroci in compagnia degli amabili figliuoli di Don Ambrogio, vidi arrivar Federico tutt’inabissato di sudore e di terreno con le mani sporche e con un fascio di erbe nella destra, frutto dei suoi studi e delle sue fatiche. Dopo le debite scuse d’avermi fatto aspettare, e senza darmi il tempo di rispondergli, volle per forza portarmi a vedere i suoi lavori che aveva fatto nel podere di sua proprietà. Era l’una suonata, ed avrei piuttosto voluto andare a pranzo; ma stavamo in compagnia, e bisognava uniformarsi ai costumi campestri. Eccomi dunque tutto azzimato e liscio a correre dietro l’amico tra macerie e cespugli. Povera CHASSE! esclamavo io in me medesimo, dando un’occhiata pietosa al mio abito, che si andava covrendo di tutti gli onori polverosi dei campi. Poveri stivali inverniciati! diceva considerando le diverse maniere d’ingrasso letamoso su pel quale io passava. Federico volle lavorare in mia presenza, e restammo circa un’ora esposti al sole e alla polvere. Andammo poscia a visitare la villetta, e se la fame e la fatica mi avessero lasciato l’agio di ammirare qualche cosa, avrei forse ammirato la magnifica veduta che offriva una terrazzina che sporgeva su tutto il golfo di Napoli – Ritornammo in casa arrossati come due fagiani allo spiedo, e trovammo una numerosa compagnia raccolta nella galleria. Vi erano Don Ambrogio e la moglie (la quale tenea in mano una grossa tabacchiera e facea regalo di tabacco a dritta e a manca); una donna di circa 50 anni, e che seppi essere una vecchia zitella, la quale pretendeva ancora d’innamorare con peregrine virtù; la signora Carmela e la signorina Paolina, moglie e figlia di Federico, e finalmente una decina di ragazzi d’ambo i sessi, oltre i cinque di Don Ambrogio coi quali io avea fatta ampia e lunga conoscenza. Ci spolverammo; Federico andò a mettersi un soprabito lungo ed a lavarsi il volto e le mani; tutti ci sedemmo per ascoltare una suonata di violino fatta dalla signorina Donna Faustina (la vecchia di cui ho parlato). Questa sonata infernale durò circa due ore. Immaginate un po’, signor lettore, le pene che soffrivano il mio stomaco e le mie visceri: erano le quattro, e non si pensava affatto a pranzare; l’appetito avea dato luogo in me ad una smania nervosa che mi suol prendere quando l’ora del mio pranzo si dilunga oltre l’usato. Poiché la signorina Donna Faustina ebbe dato termine al suo concerto, dovemmo assistere ad una quadriglia eseguita da otto ragazzi. Io non sapeva se era venuto ad una festa da ballo, o ad un pranzo in campagna. Le ombre della notte cominciavano a cadere sulla terra; ed io sentivami oscurar la vista, e per l’approssimarsi delle tenebre e per la mancanza di forze che provava il mio povero corpo, quando finalmente si chiamò in tavola. Questa parola rianimò un poco il mio coraggio e mi dette forza per sopportare altre nuove e terribili disgrazie – A tavola fui posto tra due ragazzi i quali si facevano un piacere di buttarmi addosso tutto ciò che loro non andava a genio. Il pranzo fu piuttosto sontuoso, ma fu tale il rumore che fecero quei tristarelli che io non so se pranzai, o se assistetti ad una bolgia di Dante. Federico parlò sempre di agricoltura, e ci fece sapere con sommo sussiego che l’insalata cha avevamo mangiato era frutto dei suoi poderi. Le dame ebbero una lunga e terribile disputa sulle guarnizioni delle loro vesti. la bottiglia, dopo il pasto, non circolò che con lentezza; le donne erano astemie, e gli uomini bevevano vino innaffiato – Dopo pranzo, Federico mi propose un’altra passeggiata nel giardino, ma io ebbi la forza di ricusare adducendo per iscusa che l’umidità della sera nuoceva alla mia salute. Ci rendemmo di bel nuovo nella galleria, si propose una partita alle carte. Meno male, dissi tra me, ecco almeno un divertimento che ha il senso comune. Si discusse il gioco che dovea farsi, e tutti furono di parere che si dovesse giuocare alla BENEFICIATA, per dare campo a tutti di divertirsi. Oimè, esclamai, come farò per non addormentarmi sulle mie cartelle. Coraggio, tiriamo a fine questa benedetta giornata. Ci sedemmo in giro, e mi toccò di star seduto vicino a Donna Faustina, la quale si teneva sempre paurosa ad una certa distanza da me, per paura che il mio gomito non l’avesse profanata… S’intende che tutti i ragazzi furono della partita: ad ogni momento vedevamo volare via le cartelle, o precipitar per terra tutte le palline del lotto. Ad ogni numero che era tratto, Don Ambrogio si faceva un dovere di regalarci qualche graziosità sull’oggetto che rappresentava quel numero nella SMORFIA. Notammo con sorpresa che Federico e la moglie non formavano parte al divertimento. Finito il giuoco, trovammo i due coniugi mollemente distesi su due sedie a braccioli, ed immersi nel più placido sonno. Se si consideri la fatica alla quale si era dato il povero Federico nel suo podere durante il giorno, non farete più meraviglia nel vederlo così tosto addormentato. Fui obbligato di rimanermi colà un altro paio d’ore aspettando che i coniugi si fossero svegliati. In questo frattempo Donna Faustina ci regalò un’altra suonata di violino. Erano le nove della sera quando presi congedo da Federico e dalla compagnia: i ragazzi mi accompagnarono strepitando fino alla estremità del viale che serviva di conduttore dalla strada al casino di Federico. Quando mi vidi solo, e fuori di quelle mura, allargai il petto, e respirai con dolcezza l’aura libera e fresca della sera; ringraziando il cielo di aver fatto passare quella giornata di martirio e di noia. Oh quanto siamo addietro nella civiltà, dicevo tra me medesimo meditando sulle caricature che mi avevano colpito in quel giorno, oh quanto cammino debbono ancora percorrere le MASSE! La società avea finito di tormentarmi, spettava ora alla natura di far la sua parte per rendere compiuta la giornata. Il cielo il quale fino allora era stato scemo di vapori e di nuvole, si abbuiò interamente, e il rimbombo del tuono si fece udire da lontano… Mi avvolsi nel mio tabarro, ed affrettai il passo… Inutile precauzione! Una pioggia dirotta ruppe in un momento,  e mi colpì in strada, nella quale non potevo trovare rifugio alcuno, perché interamente deserta e campestre. Camminai dunque mezz’ora circa con quel diluvio addosso, per effetto del quale restai quindici giorni ammalato con un forte catarro di petto. Da quel momento giurai che mi avrebbero piuttosto tagliato le orecchie, anziché indurmi ad andare ad un pranzo in campagna.

                                         FRANCESCO MASTRIANI