UNO SPOSO

   DI QUELLA SPECIE CHE DIVENTA RARISSIMA

   –.Quanto è bella!! Gennarino è rimasto innanzi alla sua futura metà come un asino innanzi alla statua di Napoleone sulla piazza Vendome.

   –.Quanto è bella!! E Rosina gli ha fatto una riverenza appresa dal maestro di ballo, dando uno sguardo ad un vastissimo specchio, per vedere se i ricci all’inglese si sono guastati.

   Il papà e la mamma hanno preso per mano l’attonito sposo, ed il menano nel salotto, dov’è un gentil pianoforte verticale di costruzione francese. 

   «Rosina, quella mazurca di Strauss, quella fantasia di Peisler, oppure quella variazione sul Rigoletto che ti ha portato il cugino Alberto».

   E Rosina ha spiccato un salto per prendere le carte di musica, e si è posta a suonare. Le sue agilissime dita sembrano di argento vivo sulla tastiera, che è messa tutta quanta in azione per quel pezzo di primissima forza. Masse di fragorosa armonia partono da quell’istrumento; e Gennarino è incantato, rapito, estatico – Quanto è bella!!.

   Questa eterna ammirazione è nel fondo del cuore del modesto giovine; ed egli la fa comprendere a tutti con gli occhi perpetuamente inchiodati sulla sua fidanzata, con le guance di fuoco, con quella specie di stupidezza entusiastica, onde egli raccoglie finanche la polvere che lasciano gli scarpini adorati della sua deità.

   Lo sposo è rimasto a pranzo. Vi sono molti invitati, e tra gli altri certi cavalieri con certi baffi da far paura al povero Gennarino che ha il volto raso come un chierico.

   Prima di pranzo, si fa una mano di zecchinetto; e Gennarino fa come fanno gli altri, perché egli non sa nulla di giuochi, e mette sulla carta un soldo! Un represso scroscio di risa contorce le labbra di tutti. Lo sposo gitta uno sguardo furioso sulla brigata, e va a lagnarsi con la mammà della pessima educazione di quei signori. La madre li scusa; Rosina gli prende la destra, e gli dice affettuosamente:

   «Non adirarti, amico mio. La tua salute potrebbe risentirne, ed allora…».

   Un’occhiata d’ineffabile tenerezza sconvolge il sangue e le idee del povero amico, ch’è divenuto dolce come un agnello.

   A tavola, Rosina sta seduta tra lo sposo e il cugino Alberto, bel giovine alto e ben fatto, elegantemente vestito, che parla continuamente in francese alla sposa. Gennarino ha un poco nel suo paese studiato il Goudar e tradotto il Telemaco; ma, per quanto teso abbia l’orecchio, non può venire a capo d’intendere una sillaba di quello che cinguettano tra loro i due cugini; e la conversazione sembra animata e brillante. Si mangia bene, e si bevono certi vini che fanno arrossare Gennarino insin nel bianco degli occhi. Alle frutte vi è uno scompiglio generale, un urto di parole e di lingue; tutti parlano, tutti ridono, tutti bevono. Gennarino è rosso come una zucca; non proferisce parola, e soltanto con la punta dello stivale cerca d’incontrare il piedino della sua fidanzata; e, quando lo incontra, resta estatico e balordo come un uomo assorto in una gioia suprema. La mammà  gli volge la parola, ma egli non è più tra’viventi; nulla vede, nulla ascolta; la tavola, i commensali, la sposa, tutto gli gira dinanzi agli occhi come i bambocci di una lanterna magica. Beato lui!!

   Dopo il pranzo, si pensa di correre un piccolo steeple-chase; s’improvvisa una cavalcata. Rosina gitta una cappottina sulle spalle della mammà; mette al suo cappellino un velo d’amazzone, e salta sul cavallo puro sangue – Quanto è bella!!! esclama questa volta in un trasporto di tutta l’anima il provinciale, e vorrebbe slanciarsi anch’egli sovra un destriero, ad imitazione degli altri, per tener dietro a quella silfide aerea, a quella forma incantevole di donna che sembra volare sulle ali degli zeffiri e degli amori; ma il tapino non ha mai studiato l’equitazione, e deve contentarsi, per seguir la sposa, di mettersi a cavalcioni sovra un paziente somaro digiuno da un giorno, che cammina a passi di formica. Indarno con la voce e co’calci Gennarino sferza la pigra bestia; indarno egli grida che la brigata andasse di conserva; que’signori hanno preso la carriera, e già la sposina è sparita agli occhi di lui fiancheggiata dallo svelto cugino. Ma ella, prima di dileguarsi, ha fatto con la mano un amabile saluto a Gennarino, il quale, per corrispondere a quella grazia, ha lasciato le redini del somaro: e questo, curvandosi in quel momento per lambire a terra una certa cosa liquida, fa cascare il cavaliere col muso in quella pozzanghera.

   La sera ci è festa di ballo. Quando il salotto maggiore e le altre sale sono illuminati; quando i sofà si covrono di tante vezzose fanciulle e l’orchestra intuona la contradanza francese, Gennarino crede di trovarsi nella corte di Venere. Egli non sa ballare, e se la diverte a contemplare le grazie e le forme di Rosina; sta sotto l’uscio del salotto con la bocca aperta, come un morto tra i vivi. Tutti gli eleganti cavalieri della campagna e del pranzo, e molti altri giovani, arditi, ben complessi, co’peli arricciati sul labbro, con la barba all’antica, graziosi e pieghevoli si aggirano leggermente negl’intrecci della contradanza. Rosina balla con l’inseparabile cugino.

   Un uomo vestito tutto di nero si presenta allo sposo, e gli dice con maniere sciolte e avvenenti:

   «Signore, volete fare un giro?».

   «Grazie, io non ballo».

   «Lo vedo che non ballate».

   «Che cosa dunque volete da me?».

   «Volea dire se volete fare un giro di primiera».

   «Intendete forse parlare di qualche giuoco?».

   «Per l’appunto; un giochetto libero e divertito, quattro carte di diverso colore; si fa ad invitare…».

   «Scusate, signore… Rosina, badate a voi; il braccialetto sta per cadervi».

   «Grazie, amico mio».

   «Rosina, vi è cascato il fazzoletto… badate allo chignon… Che razza di danza infernale è mai questa!».

   Gennarino si morde le labbra, ma sempre sclama in suo cuore – Quanto è bella!!

   «Il valzero, signori».

   «Oh cielo, il valzero! – esclama lo sposo – il valzero! Si balla il valzero! Oh questa volta, mia cara Rosina, non vorrei che ballaste».

   «Impossibile, mio cuore, Alberto mi ha invitata».

    Gennarino arriccia il naso. Intanto il segnale è dato; l’archetto si agita, si apre a stento un cerchio nella folla; ed ecco una decina di coppie amabili, svelte, leggiere si spingono impetuosamente, si avvoltolano, si stringono sotto la scintillante lumiera. Tra quelle coppie la più ardita, la più bella, la più animosa è quella di Rosina e di Alberto: essi solo restano in mezzo quando tutti hanno finito di girare, e per un altro quarto d’ora si avvorticano ebbri ed affascinati; il tempo è doppio.

   Gennarino è rimasto sempre al suo posto, muto per ammirazione. La sua sposa è un portento!

   Dopo un mese, si celebrano splendidamente le nozze tra Gennarino e Rosina, il più ricco proprietario di provincia e la più bella signorina di Napoli. Tutti quegli amabili signorotti invidiano la sorte del predestinato Gennarino, e gli rinnovano le proteste della loro eterna e disinteressata amicizia, e specialmente il cugino Alberto.

   Lo sposo non fa che ripetere ad ogni pie’sospinto – Quanto è bella!!

                                                                                                              FRANCESCO MASTRIANI