VERITÀ DELL’INVEROSIMILE

 

   Quand’è che la critica la smetterà, una volta per tutte, di incapsulare, a tutti i costi, gli scrittori in ismi precostituiti? D’accordo, gli ismi ci sono stati (oggi sembrano del tutto scomparsi dalla scena); sono stati talvolta teorizzati e su di essi ciascuno di noi ha spesso costruito saggi impegnativi. Tuttavia, il metodo non sempre funziona per scrittori, che, consapevolmente, sfuggono ad ogni scolastica omologazione. E questo discorso vale per molti dei nostri autori meridionali e, in particolare, napoletani, i quali si sottraggono a ogni etichetta che vorrebbe sbrigativamente schedarli e consegnarli a un archivio asettico e senza senso.

   Costretto a parlare di realismo, rispetto a Zola, che ne veniva considerato il padre europeo, Francesco Mastriani, a ragione, protestò, rivendicando a se stesso e alla “sua” Napoli la paternità di un racconto, segnato dalla “scandalosa” condizione della città, capace persino di oscurare la più celebre Parigi del grande realismo e naturalismo. In tal senso, Mastriani offre lo straordinario repertorio antropologico, di prima mano, di una Napoli, sulla quale forse nessuno ha posato il proprio sguardo come narratore, che la conosceva nei suoi anfratti più segreti, nei suoi misteri più reconditi. Di qui la rappresentazione “verace” di una città, fatta di personaggi e posti sconosciuti ai più, ma che invocano cittadinanza di una letteratura, destinata davvero, come predicava Gramsci, a farsi “popolare”, dimenticando però che non sempre, come a Napoli, la plebe si è fatta popolo, secondo la giusta osservazione dei nostri illuministi meridionali e oltre (si veda, per tutti, Vincenzo Cuoco).

   Il problema “vero”, per Mastriani, era quello di farsi leggere, prima che nei libri, soprattutto sulle pagine dei giornali, che avevano tutto l’interesse a vendere il maggior numero di copie, e, quindi, di farsi capire e seguire da un pubblico il più vasto possibile. E così fu, diventando uno degli scrittori più “popolari” del suo tempo. E non è un caso che il suo elogio funebre sia stato scritto da una madre del giornalismo napoletano, Matilde Serao, anch’ella particolarmente popolare e, per questo, capace, più di altri, di entrare nel laboratorio creativo dello scrittore, sconfessando, sin d’allora, il facile cliché di verismo, che gli era stato cucito addosso. Altro che verismo – sottolineava donna Matilde – Mastriani era dotato di qualità, che, tra l’altro – e nessuno lo ha mai a sufficienza notato –, lei riconosceva a se stessa: calore e colore, nati da una fantasia avida e ardente, che provocava un rapporto diretto, immediato, con il lettore, coinvolgendolo intimamente, intensamente, nella narrazione. Questo era il “vero” segreto del Nostro, il quale da buon napoletano, non riusciva mai a essere freddo, distaccato, anatomico osservatore e descrittore dei fatti, come i suoi molto più furbi e famosi colleghi francesi. E questa caratteristica è stata ben colta da un altro “verace” scrittore napoletano, Domenico Rea, mentre nella critica accademica l’intervento più “intelligente” sul Nostro resta quello di Giuliano Innamorati.

   Anna Geltrude Pessina ha sentito l’esigenza di recuperare l’esempio del suo concittadino ottocentesco, per rendergli quanto gli è dovuto, pur riconoscendone, talvolta, i limiti, inevitabili in un autore, che tanto, troppo ha scritto, anche per venire incontro – come ben si sa – alle molteplici esigenze quotidiane e familiari, tratto peraltro comune a molti scrittori, napoletani e non.

   La studiosa e scrittrice individua nel filone del feuilleton il carattere distintivo della narrativa di Mastriani, il quale ben conosceva le tecniche per accattivarsi e sedurre i suoi lettori. Ma si tratta – è necessario sottolineare – di un romanzo d’appendice tutto napoletano, nel senso che, ancora una volta, esso obbedisce a canoni, talvolta, di esagerazione ed esasperazione narrative, rivolte a suscitare nel lettore attesa, meraviglia, insomma, forte partecipazione fantastica ed emotiva. È così la verità dell’inverosimile che Mastriani insegue e realizza, prima e oltre ogni semplicistico verismo. E in questo il nostro narratore è un maestro insuperato per doti di raccontatore, che meriterebbero di essere meglio indagate nel loro più specifico sostrato linguistico e letterario, da ricondurre sempre alle radici e ragioni (non ragioni) della “sua” città.

   Rinunciare a Napoli per apparire snobbisticamente europei è un alibi di cui purtroppo si sono serviti, sino ad oggi, critici e narratori, dimenticando forse che Napoli è stata europea da sempre, come basterebbe a dimostrare il sangue misto che scorre nelle vivaci vene dei suoi abitanti. Mastriani queste cose ben le sapeva e viveva sulla propria pelle di scrittore indipendente, se si vuole, irregolare, legato a nessun ismo o consorteria, perché pienamente bastante a se stesso. Una sola cosa mai gli bastava: quella pecunia, che serviva a sopravvivere e a mantenere una famiglia, considerando gli scarsi proventi di uno scrittore di allora (ma non solo), che al proprio genio, comunque, chiedeva di dare il meglio di se stesso. C’è nel napoletano un orgoglio, che nessuno conosce; una calma passionale, che molti confondono con un facile istinto, mentre è tutt’altro: è storia, è cultura di secoli, stratificati dentro il vivere e, appunto, sopravvivere quotidiano.

   Mastriani, a parte limiti e difetti, facilmente identificabili, aveva capito che non bisognava andare troppo lontano per restare fino in fondo se stessi. Napoli era un laboratorio inesauribile di ispirazione, a cielo aperto; era solo sufficiente attraversarla nel suo ventre più profondo e raccontarla con quell’amore che ogni napoletano non può fare a meno di nutrire per la propria città.

   Ben vengano, dunque, pamphlet, come questo della Pessina, che invocano di fare giustizia e di fare rientrare un «escluso» nel contesto che più gli appartiene e più lo autentica, evitando il rischio, purtroppo da noi sempre ricorrente, di spalancare le porte al forestiero e serrarle a chi ci è più vicino e, soprattutto, ci somiglia.

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                                                                                FRANCESCO D’EPISCOPO

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   FRANCESCO D’EPISCOPO è nato a Casacalenda (Campobasso) il I maggio 1949 da padre napoletano e madre molisana. Ha vissuto tra Campania, Molise ed Abruzzo, prima di stabilirsi a Salerno. Ha conseguito la maturità classica presso il Liceo-Ginnasio Statale «Melchiorre Delfico» di Teramo, con il massimo dei voti. Si è laureato il Lettere classiche presso l’Università degli Studi di Napoli «Federico II» con una tesi in Letteratura Italiana sull’estetica del poeta-teologo nel primo Rinascimento italiano; si è perfezionato in Storia dell’Arte presso la stessa Università con una tesi su Francesco Petrarca e le arti figurative, sempre con il massimo dei voti. Francesco D’Episcopo svolge attività didattica e scientifica presso il Dipartimento di Filologia moderna «Salvatore Battaglia» della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Napoli «Federico II», dove insegna Letteratura Italiana, Critica letteraria e letterature comparate. Ha insegnato, inoltre, Letteratura Italiana all’Università del Molise.