VERMI LAZZARI E OMBRE

   Della presente prefazione di Riccardo Reim, sono da annotare alcune imprecisioni, sia nella bibliografia che nella biografia di Francesco Mastriani.

   Per quanto riguarda la bibliografia, sono state rilevate le seguenti anomalie:

  • La Medea di Porta Medina non è un romanzo postumo, pubblicato cioè nel 1915, ovvero 24 anni dopo la morte dello scrittore. Venne stampato la prima volta in appendice sul Roma dal 12 ottobre al 29 dicembre 1881. Ci fu poi la prima pubblicazione in volume: Napoli, Stamperia Governativa, 1882. Ci furono in seguito altre edizioni: Napoli, Monte, 1911 e Firenze, Salani, 1915.
  • I lazzari parimente non è un romanzo postumo, pubblicato nel 1915. Anche questo lavoro venne divulgato in appendice sul giornale Omnibus dal 2 settembre 1871 al 21 febbraio 1872. Ci furono in seguito diverse edizioni: Napoli, L. Gargiulo, 1865; Napoli, G. De Angelis, 1873; Napoli, G. Salvati, forse 1897; Napoli, T. Pironti, 1928.
  • I Vermi fu pubblicato la prima volta: Napoli, L. Gargiulo, 1863-64 (e non 1862-1864).
  • I misteri di Napoli, non è stato mai pubblicato in appendice su qualche giornale. la prima pubblicazione , in volume è Napoli, G. Nobile 1969-70. Ci sono state in seguito altre edizioni: Milano, Sonzogno, 1875; Napoli, G. Regina, 1879-80; Napoli, Pironti, senza anno.

   Per quanto riguarda la biografia, Francesco Mastriani è deceduto che mancavano dieci minuti alla mezzanotte del 5 gennaio 1891. Non è stato mai impiegato della dogana, e neppure cicerone e guida turistica per i forestieri.

                                                                                          Rosario Mastriani

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                Vermi, lazzari e ombre

   «Propone un suo romanzo a un giornale, ne propone un altro a un altro. È accettato subito. Si fanno le condizioni, che sono facilissime: tanto al giorno per tanto tempo. Incomincia a scrivere le due prime appendici, due righe alla stamperia, dieci in omnibus, venti a desinare e così via: domani vedrà dove è rimasto per ripigliare il filo dell’uno o dell’altro…». Con questa stroncatura piena di sufficienza Federico Verdinois  [1]  tracciava un impietoso ritratto di Francesco Mastriani, popolarissimo feuilletoniste napoletano, «povero travet del romanzo, colpevole solo di sfruttare, per sbarcare il lunario – lui padre di famiglia – la facile vena della sua fantasia e la inesauribile miniera del suo moralismo sociale [2]. Ma nel 1909 un critico ben più acuto e attento, Benedetto Croce, nella sua Vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1900 scriveva: «C’era invece allora in Napoli un romanziere di appendici che non è solo importante per la conoscenza dei costumi e della psicologia del popolo e della piccola borghesia partenopea, ma rimane il più notabile romanziere del genere che l’Italia abbia dato…» [3].

   Scrittore d’appendice, dunque (e quel catalogarlo in un genere da parte del Croce non suona affatto come una condanna, ma casomai come uno strumento di penetrazione e di conoscenza), dalle parentele ben chiare ed evidenti; Dumas, Hugo, D’Hennery e soprattutto Sue, a cui Mastriani guarderà costantemente nella costruzione dei suoi complicatissimi congegni narrativi a sfondo «realistico-sociale», veri e propri feuilletons «regionali» secondo tutte le regole di quello che Jean Tortel definisce «il periodo romantico o eroico» del romanzo popolare, « inseparabile dalla stampa a grande tiratura» [4]; quei romanzi, insomma, di cui i quotidiani si servivano per «scendere» al popolo, per farsi un fedele pubblico di lettori con le torrenziali vicende degli eroi partoriti dalle fantasie a cottimo.

   Nell’Italia post-risorgimentale, dove «s’incrociavano… e s’imbrogliavano anche, i vari fili dell’ appendice che sembrava riprodurre, a vari livelli artistici e sociali, le contraddizioni dell’Italia stessa» [5], Francesco Mastriani si fa a suo modo cronista del tenebroso e brulicante ventre di Napoli, di cui vuole ritrarre e denunciare ingiustizie e miserie. Realismo narrativo, allora? In un certo senso sì, e fedelissimo anche, degno, a tratti, di un grande maestro; ma un realismo d’istinto pittorico, che ricorda le saporose pennellate di Giacinto Gigante e di Gabriele Smargiassi, tutto «di fantasia», non certo prodotto di un’analisi razionale. Nulla da spartire col naturalismo francese (di cui un tempo lo si volle credere precursore) [6], né, tantomeno, col verismo, che con Verga e De Roberto proponeva la strada di «un autentico regionalismo risolto in chiave stilistica come proposta ʽstoricaʼ,di una nuova dimensione nazionale» [7]. Eppure lo stesso Mastriani, che del naturalismo di Zola – come pure del realismo critico di Balzac – non aveva saputo cogliere che la patina esterna, si arrovellò per dimostrare la priorità delle sue creature nei confronti dei personaggi dei Rougon-Macquart: «Che è mai cotesto rumore che si leva intorno al realismo? Il realismo l’ho inventato io. Che è cotesta Nanà, che tutto il mondo n’ha da discorrere come l’ottava meraviglia? Io ho scritto I Vermi. C’è niente di più realista del Vermi? Io vi domando in coscienza se si può scendere più in basso. Di più, voi, realisti da strapazzo, sguazzate nel sudiciume; ed io, come vedete, vi servo a tavola, l’anima stessa del medesimo in tante pagine strappate dall’albero della mia fantasia ancora verdi e sanguinanti..» [8].

   Tante pagine, è vero. Decine di migliaia, che vanno a formare ben centosette romanzi [9]. Troppe. E per di più spesso farraginose e dilatate, intrise di socialismo e provvidenzialismo a buon mercato, di ingenuo positivismo, di teorie pseudoscientifiche. No, L’Assommoir e Nana [10] c’entrano assai poco; Eugènie Grandet, e Le père Goriot [11] niente del tutto; i parenti più prossimi restano Les Mystères de Paris e Le juif errant [12]. «Il realismo del Mastriani» scriveva Luigi Russo «a parte ogni quistione di arte, aveva origine diverse che il naturalismo zoliano: questo procedeva dalle esigenze della scienza moderna e della nuova cultura, e quello del Mastriani era invece un tardivo riflesso di quell’illuminismo socialistico, volgarizzato dalle dottrine della rivoluzione francese e che a Napoli aveva avuto i suoi organi giornalistici e i suoi assertori dal 1799 in poi. Il Mastriani procede nei suoi racconti, animato da un ideale di palingenesi universale; egli vuole essere l’apostolo dei miserabili, e, per tale ragione, si fa a descrivere veristicamente le condizioni tristi delle moltitudini oppresse dalla miseria e  dal vizio [13].

   Mastriani, in realtà, raccontò «vita vissuta», anche se, paradossalmente, i fatti narrati nei suoi romanzi con la vita avevano poco da spartire: eppure certe scene di bassifondi, certi episodi di malavita resi con un taglio rapido, cinematografico, tutto teso a un’immediata comunicazione con il lettore, hanno davvero, la forza di una presadiretta. E ancora di più questa forza balza fuori in alcuni stupendi, serratissimi dialoghi che corrono via d’un fiato, gremiti di espressioni gergali e di imprevedibili impennate linguistiche, che esplodono come fuochi d’artificio nel mezzo di pagine a volte fiacche e indigeste: «aderenza linguistica all’ambiente, prontezza di riflessi narrativi che si adeguano egregiamente al  ʽcolore localeʼ, punto costante di riferimento per Mastriani rievocatore fantastico della sua Napoli ʽmiserabileʼ rivissuta in chiave di favola popolare [14]. Vermi, ombre, lazzari[15] : tutto un mondo sotterraneo che va a comporre lo ʽspettacoloso intreccioʼ dei suoi libri, tanto che ancora Luigi Russo ne I Narratori (1923), pur tra molte reticenze, notava che «egli può considerarsi il progenitore ideale di quella letteratura popolare partenopea, che conta ancora tenaci e più ammodernati rappresentanti fra i canzonieri e i commediografi e novellatori dialettali viventi, espressione di quel singolarissimo regionalismo letterario che a Napoli più che altrove ha radici profonde, e da cui sono usciti due artisti di grande forza e di significato universale, il Di Giacomo e la Serao delle opere giovanili» [16].

 

   La Medea di Porta Medina, pubblicato postumo nel 1915 a ventiquattro anni dalla morte dell’autore [17], prende l’avvio dall’ospizio della Nunziata, probabilmente ispirandosi (ed è lo stesso Mastriani, tra le righe, a confessarlo nelle prime pagine del libro) all’allora notissimo romanzo di Antonio Ranieri Ginevra o l’orfana della Nunziata, scritto «non per odio, ma per carità de’ fratelli» e trionfalmente ripubblicato nel 1862 dopo le persecuzioni della polizia borbonica del 1835 [18]: «La Nunziata nel 1792 era presso a poco quella descritta dal Ranieri nel suo pregevole volume L’orfana della Nunziata; e noi rimandiamo il lettore alle vive dipinture che l’illustre scrittore fece di quel reclusorio dei reietti…»[19].

   E proprio nel cortile della Nunziata, tra le «figlie della Madonna» schierate in fila alla speranzosa ricerca di uno sposino, c’è Coletta Esposito, la futura «Medea», «una leggiadra brunetta, che avea certi occhioni nerissimi e fulgidi con sopraccigli crespi e ritrosi»:

   « ‒ Si chiama Coletta Giovanna Giuseppa Adriana.

   Le reiette solevano prendere il primo nome che le veniva dato nel battesimo dal governatore della settimana e gli altri da’ Santi della giornata in cui venivano raccolte dalla Ruota. E quella bambina era stata gittata nella famosa Buca la sera del 15 marzo 1774, giorno in cui la Chiesa Cattolica ricorda i Santi Giovanni e Giuseppe della Croce e Adriano.

   In quanto al cognome, le reiette non ne aveano che uno comune a tutte: Esposito.

   (…) Da quando tempo ai trovatelli in Napoli si appicca, quasi a sempiterno ricordo, l’odioso aggiunto di Esposito? Da quando tempo questo cognome affratella in una numerosa famiglia tutt’i figli della colpa? E perché sulla fronte dell’adultera madre non si stampa eziandio il marchio dell’ adulterio? L’adulterio, l’impudicizia, il libertinaggio dei genitori rimangono coperti, mentre la sventura dei figliuoli è disvelata per sempre per urbem et orbem, la mercè di quella specie di bollo a secco pel cognome Esposito sovrapposto alla fronte di un uomo. E questo uomo dovrà arrossire ogni volta che apponga il suo nome a pie’ di carta, ogni volta che si senta chiamare dove che sia, ogni volta infine che sia costretto a pronunziare il suo nome e cognome. E i suoi figliuoli legittimi si chiameranno anche Esposito, perciocchè è questo il cognome del genitore; e dovranno essi pure arrossendo trasmettere l’odiato appellativo a’ figli ed a’ nipoti, come punizione d’una colpa che Dio avrà perdonato da cento anni, e che la società si ostina a perseguitare inesorabilmente, non già sugli autori di quella colpa, da lei ignorati, ma su i loro discendenti di discendenti!» [20].

   Il destino di Coletta è dunque segnato fin dalla nascita da quel «suggello d’infamia», poiché, come Mastriani non manca di avvertire, «è da notare che questo cognome influisce moltissimo su la piega che prendono i costumi di quelli che il portano»: [21] scenderà inesorabilmente tutti i gradini della sventura e della disperazione (percorrendo, è ovvio, tutte le tappe canoniche del feuilleton), fino all’omicidio e alla più turpe follia, fino al patibolo:

   «Fin dalle cinque del mattino una folla sterminata ingombrava quella piazza, aspettando il lugubre corteo.

   E questo non tardò a giungere.

   Un silenzio di tomba accolse l’arrivo della condannata, che, vestita di nero, con la parola Empia in lettere rosse sul petto, era stata con una corda al collo strascinata dal carnefice al luogo del supplizio.

   Coletta aveva rifiutato il confessore ed ogni altra spirituale assistenza.

   Con la testa alta, con lo sguardo procace, con passo fermo salì sul paribolo, volgendo intorno a sé gli occhi terribili.

   Tre rulli di tamburo si fecero udire…

   Poi la mannaia si alzò, e ricadde» [22].

   Taglio cinematografico, si diceva: un formidabile regista dell’inquadratura d’azione. È qui la grandezza di Mastriani, quando narra della sua Napoli «misteriosa» come in un lunghissimo «cunto», con le cadenze e i ritmi di una ballata popolare, la spontaneità e l’immediatezza del linguaggio parlato. Fu questa sua dote, forse, a farlo divenire popolarissimo fra il pubblico delle «appendici», al punto che alcuni suoi romanzi vennero addirittura letti in piazza e declamati dai cantastorie. Ai suoi modesti funerali partecipò una folla impressionante; quella stessa folla che, una puntata dopo l’altra, divorava le sue storie a forti tinte e he inviava al direttore del quotidiano Roma [23] biglietti di questo tenore:

   «Egregio signore, il vostro giornale ʽRomaʼ è la Rigina dei giornali! Ma il Romanziere Mastriani è il iddio dei Romanzieri» [24]

                                                                                                                                                                                                                         Riccardo Reim

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[1] Federico Verdinois, Profili letterari napoletani, Napoli, Morano, 1882.

[2] Giorgio Luti, Attualità di Francesco Mastriani, in Francesco Mastriani, I Misteri di Napoli, Firenze-Roma, Casini, 1966.

[3] Benedetto Croce, La vita letteraria a Napoli dal 1860 al 900, in Letteratura della Nuova Italia, serie IV, Bari Laterza, 1915 (il saggio in questione risale al 1909).

[4] Jean Torel, Il romantico popolare, in Cent’anni dopo – il ritorno dell’intreccio, a cura di Umberto Eco e Cesare Sughi, Almanacco 1972, Bompiani.

[5] Angela Bianchini, Breve storia del feuilleton, in Cent’anni dopo – il ritorno dell’intreccio, a cura di Umberto Eco e Cesare Sughi, cit. Vedi anche, a questo proposito, Riccardo Reim, Candide nefandezze e timorate perversioni, in Carolina Invernizio, Nero per signora, Roma, Editori Riuniti, 1986.

[6] Vedi a questo proposito G. Hèrelle, Un romancier socialiste a Naples, in   ʽRevue de Parisʼ, giugno 1894.

[7] Vedi nota 2.

[8] La citazione è ripresa da Giorgio Luti, Attualità di Francesco Mastriani, in Francesco Mastriani, I Misteri di Napoli, cit.

[9] Tra i più noti: La cieca di Sorrento (1852); Il mio cadavere (1853); Il conte di Castelmoresco (1855); Il materialista ovvero i misteri della scienza (1863); I Vermi: studi storici sulle classi pericolose di Napoli (1862-1864); Le ombre (1868); I Misteri di Napoli (apparso in 93 dispense nel 1860-70 e in volume nel 1875); La sepolta viva (1889); I Lazzari (postumo 1897).

[10] Pubblicati, rispettivamente, nel 1877 e nel 1880.

[11] Pubblicati, rispettivamente, nel 1833 e nel 1834.

[12] Les Mystères de Paris venne pubblicato in appendice al ʽJournal des Dèbatsʼ tra il 1842 e il 1843; Le juif errant tra il 1844 e il 1845.

[13] Luigi Russo, I Narratori, Roma, Fondazione Leonardo, 1923.

[14] Vedi nota 2

[15] Francesco Mastriani, I Vermi: studi storici sulle classi pericolose di Napoli (1862-1864); Le ombre (1868); I Lazzari (postumo 1897).

[16] Vedi nota 13.

[17] Francesco Mastriani nacque il 23 novembre 1819 a Napoli, dove morì il 7 gennaio 1891, conducendo, come ricorda Luigi Russo, «vita stentatissima ed operosissima». Fu, tra i vari mestieri, correttore di bozze al ʽGiornale delle due Sicilieʼ, impiegato della dogana, ripetitore privato di francese e d’inglese, e anche «cicerone» e guida turistica per i forestieri.

[18] Per ulteriori notizie intorno al romanzo di Ranieri, vedi Riccardo Reim, Ginevra o le sventure del feuilleton, in Antonio Ranieri, Ginevra o l’orfana della Nunziata, Roma, Lucarini, 1986.

[19] Francesco Mastriani, La Medea di Porta Medina, cap. II.

[20] Vedi nota 19.

[21] Vedi nota 19

[22] Francesco Mastriani, La Medea di Porta Medina, cap. XXX.

[23] È la testata alla cui appendice Mastriani collaborò più assiduamente.

[24] Il testo del biglietto è tratto dalla biografia dello scrittore dettata dal figlio Filippo. La citazione è ripresa dalla nota che correda il volume Francesco Mastriani, I Lazzari, Napoli, ABE, 1976.

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   RICCARDO REIM,  all’anagrafe Riccardo Gessini (Roma 1953-2014), è stato un attore, regista e drammaturgo italiano. È stato anche poeta, narratore, traduttore (dal francese), copioso antologista, saggista e critico letterario con le competenze più varie. Il suo vorace eclettismo e la sua generosità culturale lo faceva passare da Tolstoj a Francesco Mastriani, da Moravia ad uno sconosciuto giovane poeta contemporaneo.