La spigaiola del Pendino

    La seguente recensione del romanzo  La spigaiola del Pendino, è stata realizzata dalla dottoressa Anna Geltrude Pessina, già docente nei Licei Psicopedagogici di Napoli.

   Il romanzo in oggetto fu pubblicato in appendice al quotidiano Roma, nell’anno 1888; XXVII, 36 (4 ottobre) – 360 (28 dicembre), in 80 dispense, con il titolo Rosella la spigaiola del Pendino.

   

   Più leggo e mi approccio alla produzione di Mastriani, più scopro l’attualità dei suoi feuilletons, imbastiti su un sostrato socio-ambientale che non si impantana nella gora di un passato senza proiezione di futuro, in quanto siffatto passato si specchia in un oggi con le stesse aberrazioni dell’ieri, quasi a significare che le coordinate della storia interagiscono e si interfacciano con malversazione e devianze, rivalità e gelosie, operosità e infingardaggine, odio e vendetta, amore e morte, veleno di quel quotidiano e del nostro contesto.

   Ad esempio, ne La spigaiola del Pendino, con La Malavita, La Jena delle Fontanelle, Carmela, quarto inedito rinvenuto dagli eredi Emilio e Rosario, la costante dell’attualità, con il connesso processo di continuità, si enuclea dal monitoraggio di soggetti ancorati ad abitudini comportamentali ancestrali, entrati di prepotenza nel panorama letterario popolare napoletano con il condizionamento del mondo in cui sono vissuti e da cui sono stati plasmati, senza alcuna possibilità di sradicamento o di trasformazioni in positivo.

   Il pensiero corre al lazzarone nellora della controra[1]  –  tratteggia Mastriani senza infingimenti e pennellate oleografiche – sdraiato nella sua sporta e con la corta pipa in bocca,[2] in totale decompressione, dopo che ha mangiato le cinque o sei grana che ha lucrate nel corso della giornata[3] con un ambulantato improvvisato, di giorno in giorno, diversificato, mettendosi al servizio di un fruttaiolo,[4] ora gabbando un cafone[5] per estorcergli qualche monetuzza, [6] ora ponendosi in testa, per pretenderne l’obolo pecuniario, il bagaglio di un forestiero.

   Consuetudine tuttora in voga e da me sperimentata agli inizi degli anni sessanta. Quando, a Muro Lucano, scendevo dal postale, ero all’istante accerchiata da una frotta di contadinelli, più svestiti che vestiti – terza-quarta generazione del lazzarone di Mastriani. Con la monotona, iterativa cantilena Ti voglio portare la valigia! Ti voglio portare la valigia! me la strappavano di mano e mi costringevano a seguirli a passo spedito. Il tutto per qualche spicciolo sonante.

    Millenovecentosessanta-millesettecentotrentotto, anno in cui si dipana la vicenda di Rosella, e innegabile si rivela l’analogia tra il contadinello-scugnizzo di oggi e il lazzarone di Mastriani, proliferazione del lazzaro del Vicereame spagnolo. Pigro, cencioso, scimmiottando salamelecchi da hidalgo,[7] rimedia qualche monetina da Quijoti in gorgiera e donn’Anne damascate, in nobile sfilata per Toledo.

   Di scena il lazzaro di sempre, figlio di una Napoli accidiosa, indolente: senza slombarsi con fatiche pesanti, vive di elemosina e di espedienti.

   Non a torto, Walter Benjamin, di passaggio per la nostra città, rileva che con pigrizia e spossatezza[8] si può coniare l’adagio godere lozio nella miseria.[9] É la species genealogica del lazzaro apatico, indifferente, passivo, menefreghista.

   Ne Il resto di niente, in pieno fermento e preludio rivoluzionario, Enzo Striano annota che sulle spiagge di Santa Lucia, Chiaia, Mergellina i lazzari nudi si arrossiscono al sole beati, sonnolenti,[10] al pari del lazzarone di Mastriani, inerte e sonnolento nella propria sporta.

   Tale fissità antropologica sposa la componente spagnoleggiante, travasata per ibridazione e vischiosità nel DNA del popolino, cui osmoticamente si abbina e si congiunge il fariseismo di sub uomini spregevoli, diavoli camuffati da angeli di bontà, dissacratori del divino che piegano alle loro esigenze, per ridurre in schiavitù psicologica e mentale gente in crisi, vuoi per un lutto improvviso, vuoi per una malattia diagnosticata inguaribile, vuoi per un amore non corrisposto. 

   Sì, perché i mistificatori della fede, in presunto odore di santità e, come tali, capaci di rendere prodigiosamente possibile l’impossibile, si arrogano addirittura la facoltà di accendere la fiamma dell’amore in chi è troppo distratto e sentimentalmente assente per recepire sospiri e patemi di una donna che ha la sventura di amare senza essere riamata. Contropartita, tra un Pater Noster e un’Ave Maria, l’esborso di danaro con la litania che qui dat pauperibus, non indigebit.

   È inequivocabilmente chiaro che il denaro, da devolvere a indigenti e a diseredati scivola diritto diritto nelle tasche di santoni e santone, visto che di loro stiamo parlando.

   Oggi, a dimostrazione dell’attualità del romanzo mastrianeo, sottolineiamo che di tale risma di truffatori amorali, acattolici ne contiamo a iosa, costituitisi in associazione o sette con un volume d’affari redditizio e lucroso, a scapito di seguaci e donatori, perennemente tenuti sotto tiro, per scongiurare possibili fughe o defezioni.

   Affetta da cocente passione per Minicuccio, lo scarpariello,[11] Rosella si affida all’intervento miracoloso di Isabella Mellone, monaca santa di Largo delle Pigne,  famosa ipocrita femmina, le cui arti furbesche son riuscite ad ingannare su la sua pretesa santità quasi tutta la popolazione napoletana.[12] Manipolatrice  e  raggiratrice  raffinata, la  Mellone è  pervenuta  a illudere  non  solo gl’ignoranti, ma benanche la gente colta,[13] cui, senza distinzione di ceto e di cultura, apre la sua casa, con la velleità di ostentare una piccola corte di proseliti e di iniziati, discepoli e figliocci, che le si rivolgono con l’appellativo di Madre,

   Dal colloquio tra la santona e la giovane, alle prime battute virulento e tensivo, si rimane, a dir poco sconcertati, dalla falsità e dalla doppiezza della sedicente eletta del Signore. Ambigua, perspicace, Isabella Mellone, quando apprende che Rosella dalla regina Maria Amalia Walburgo ha ricevuto un maritaggio di mille ducati, dispiega con immediatezza le sue qualità luciferine e camaleontiche: infatti, con un proteismo da avanspettacolo pattuisce, con un atteggiamento sorprendentemente duttile e docile, la ricompensa di quattrocento ducati a suffragio dell’innamoramento garantito e del successivo matrimonio.

   Rosella cade nella trappola della megera non per comprensibile ingenuità, ma perché è dominata da una passione che tutta la invade; una passione assolutizzante, purtroppo, a una dimensione, dal momento che lo scarpariello, lei, però, non ne ha contezza, spasima per  Ciretta, la bella pettinatrice, che, a differenza della spigaiola, possiede arti seduttive da vendere per accalappiare Minicuccio, fresco sposo disinnamorato, convolato a nozze con il progetto di aprire, con i soldi del  maritaggio, una bottega di calzolaio.

   Ancora, sempre e dovunque il motore del mondo e degli uomini orbita intorno alla morale benthamiana dell’utile, contrassegnata da appagamento materiale: denaro! denaro! denaro! condito con un grumo d’amore, quello di Minicuccio e Ciretta, inteso come piacere erotico ed edonistico.

   Le amiche ( Oh, Socrate che ad Alcibiade, stupito della tua piccola casa, rispondesti: Vorrei fosse piena di amici veri! non ti rivoltare nella tomba per la profanazione di questo vincolo affettivo), Ciretta e Rosella si confidano sogni, speranze, aspettative di futuro, senza che mai la chiacchierata pettinatrice, di cui si mormora abbia una relazione con il cavaliere Boccucci, lasci trapelare che in cima ai suoi pensieri c’è Minicuccio, inesaustivamente irretito con un’ars amatoria degna di Lesbia o di Messalina. Preso da forte incantesimo dei sensi; forte dei soldi sottratti alla moglie, Minicuccio, insieme con l’amante, decide di allontanarsi da Napoli  e di condursi a Brusciano.

   Lì, la spigaiola, con la complicità di Aniello, il materassaio, porta a compimento, covata in pectore in giorni interminabili di macerazione dell’anima e della carne, la sua vendetta esemplare. Con livore e risentimento partenopeo, con un colpo bene assestato, evira il marito infedele, dormiente accanto a Ciretta, cui riserva l’oltraggio del viso sfregiato, deturpando vandalicamente quella bellezza ammaliatrice che aveva soggiogato persino il cavaliere Boccucci, segretario della Real Camera di Santa Chiara.

   Quello di Rosella è l’amore cha nullo amato amar perdona.[14] Noi abituati ai femminicidi e agli uxoricidi di oggi con l’aggravante della crudeltà, pur non condividendo il barbarico occhio per occhio dente per dente, non ci sentiamo di contestare il verdetto dei giudici: dopo qualche mese di reclusione concedono alla prigioniera la libertà per lo stato di incipiente maternità. Assolviamo la spigaiola, legittimando la carica di istintività primordiale e ferina, che sfocia nella passione accecante con contraltare l’odio. Amore-odio-gelosia-vendetta: siamo nel bel mezzo del dramma shakespeariano con identità Otello-Rosella. La gelosia dell’uno si analogizza a quella dell’altra, il che, a nostro avviso, avvalora la linea di continuità, aggregazione, amalgama, unità delle storie letterarie europee.

   In virtù di questa tesi di visione globalizzante, i feuilletons di Mastriani non sono da archiviare in ambito esclusivamente regionale e napoletano, perché se don Francesco ha narrato le cose di Napoli e della sua gente, altro non ha fatto che modellarsi su Omero, Pindaro, Sofocle, Euripide che cantarono le cose dei loro greci,[15] senza, peraltro essere esclusi, come lui, dal nobile castello letterario.

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   Anna Gertrude Pessina

 

[1] F. Mastriani, La spigaiola del Pendino, Guida Editore, Napoli 2018, p. 94.

[2] Ivi, p. 95.

[3] Ivi.

[4] Ivi.

[5] Ivi, p. 96.

[6] Ivi.

[7] J. N. Schifano, Les Croniques Napolitanes, La Feluca del Viceré, Tullio Pironti, Napoli 1986, p. 79.

[8]F. Raimondino A. F. Miller, Dadapolis, Einaudi, Torino 1989, parte I, p. 10.

[9] Ivi.

[10] E. Striano, Il resto di niente, Loffredo, Napoli 1986, p. 184.

[11] F. Mastriani, La spigaiola del Pendino, cit., p. 14.

[12]Ivi, p. 60.

[13]Ivi.

[14]D. Alighieri, Inferno, a cura di A. Signorelli, Roma 1988, canto V, p. 162, v. 103.

[15] G. Berchet, Lettera semiseria di Grisostomo al figlio, a cura di M. Scotti, Utet, Torino 1979, p. 440

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