La plebe urbana

 

La Barra di Napoli nella storia

Il Periodo Liberale (1896-1900)

di Angelo Renzi

Ti amo e ti odio. Come questo sia possibile,

non lo so. Ma lo sento. E mi tormento.

(da Catullo)

  Né con te, né senza di te,

io posso vivere.

(da Ovidio)

 

Ritratto di donna

 

Olio su tela, 129×100 cm – anno 1705 (ca.). Tolosa, Musée des Augustins.

 

Francesco Solimena (Canale di Serino, Avellino, 4 ottobre 1657 – La Barra di Napoli, 5 aprile 1747)

 

Una donna, di cui non si conosce il nome, con i suoi gioielli deposti (o da indossare?) in un piatto d’argento: rappresenta forse, allegoricamente, la città di Napoli … e perché non La Barra?

 
La plebe urbana

    Mancando l’industria, mancava ovviamente anche una classe operaia, ed una lotta, o magari una collaborazione, fra le classi, in forma cosciente ed organizzata.

Vi era invece, continuamente debordante, la sterminata moltitudine della plebe urbana, la cui caratteristica strutturale era quella di non avere una fonte di reddito più o meno definita e costante.

Dall’inizio del Cinquecento alla fine dell’Ottocento, “un’analisi sommaria porta a valutare a più della metà del totale la parte della popolazione napoletana che non aveva alcuna stabilità economica” [49].

“In questa città, dove tanta gente non ha niente … il popolo è ben più popolo che altrove” (Montesquieu).

In ogni città europea, vi erano poveri e diseredati; ed in quelle più grandi, come Parigi o Londra, ve n’era una massa ingente; ma la plebe di Napoli era un unicum.

.

Sue origini

   Anch’essa, come il ceto medio borghese, era sorta come classe nel periodo del viceregno spagnolo, già agli inizi del Cinquecento [50]:

“Con la progressiva disgregazione delle strutture feudali nelle provincie, processioni di mendicanti ed eserciti di cafòni premono alle porte della città … per entrare in questa tana sterminata … dove si viveva comunque male, ma almeno liberi dalle angherìe feudali e dove, per paura delle sommosse, le autorità cercavano almeno di non far mancare il pane per la nuda sopravvivenza.

Un popolo di straccioni invade le strade, occupa le piazze coi suoi volti tèrrei, le facce spesso butterate e ripugnanti, si accampa sui sagrati e rumoreggia alle porte dei conventi agitando stravaganti batterie di scodelle, ciotole e gamelle in cui raccogliere, e subito ingozzare, i beveroni dispensati dai frati alla campana di mezzogiorno e alle prime ore della notte …” [51].

 

Sua vita ordinaria

   In seguito, normalmente “stipata” a “se puzza’ ‘e famme” dentro la fitta griglia dei vicoli, dei suppòrtici e dei fòndaci, il suo modo di vita “ordinario” era contraddistinto da:

–      l’essere abbandonati a se stessi da qualsiasi autorità civile;

–      il sopravvivere alla giornata, grazie ad espedienti, a volte conformi, ma spesso non  conformi, alle regole morali e legali vigenti.

 

Sua vita extra-ordinaria

   Le eruzioni del Vesuvio, le carestie e le pestilenze erano invece le circostanze “extra-ordinarie” che segnavano la sua storia, la quale dunque è complessivamente ben descritta dal celebre trittico: ’a famme, ‘a peste e ‘a carestìa

Circostanza “extra-ordinaria” era anche l’intervento della plebe sulla scena politica, che avveniva peraltro quasi unicamente in occasione delle “sommosse per fame”, come quella [52] che condusse alla morte dell’Eletto Staràce nel 1585, ancorché la vicenda della sollevazione di Masaniello [53] dimostri che essa era tuttavia capace, all’occasione, di mobilitarsi anche in una forma relativamente più cosciente ed organizzata.

 

Plebe e piccola borghesia

   Certamente, però, la massa plebea si era sempre schierata in senso anti-borghese, in modo netto e chiaro, in ognuna delle quattro tappe dell’epopea rivoluzionaria liberale [54] e, nei suoi confronti, il nuovo ceto dominante nutriva quindi un sentimento complesso e contraddittorio, fatto di disprezzo, commiserazione e paura insieme. 

   Dipingere una icona di questa plebe urbana dalle mille facce non è così semplice come per la piccola borghesia. La maschera di Pulcinella ne è stata, per secoli, la rappresentazione più efficace. Matilde Serao ci provò ne “Il ventre di Napoli” [55] e Salvatore Di Giacomo in “Fùnnaco verde”, ma la loro descrizione, per quanto commossamente partécipe, è pur sempre “dall’esterno”: è una icona della plebe, dipinta da piccolo-borghesi sentimentali e “maternalistici”, in definitiva superficiale.

A scrivere invece “dall’interno” l’epopea di questa classe è stato unicamente, o quasi, il grande Francesco Mastriani (Napoli, 1819-1891), che ne potrebbe essere considerato, gramscianamente, il vero “intellettuale organico” per quel periodo storico.

“S’intendevano l’un l’altro: egli aveva visitato l’ultimo tugurio e il popolo si riconosceva in lui” (Giovanni Bovio).

“Ebbe come lettori tutta Napoli, all’infuori della gente letterata” (Benedetto Croce).

 

Targa sulla facciata del Teatro S. Ferdinando

Francesco Mastriani (Napoli, 1819-1891)

   Non a caso, “alla sua morte, le Associazioni Operaie Indipendenti di Napoli accompagnarono in massa il feretro dello scrittore, dopo aver affisso un manifesto per le vie della città in cui si leggeva:

Noi renderemo, solo questo è in nostro potere, ossequio postumo a chi, come noi, soffrì dolori inenarrabili, comuni ad una gente che aspetta la redenzione sua nel mondo; a chi non nascose, della plebe, le virtù onorate.

   Ed in città girava, non si sa da chi composto, una sorta di necrologio in rima:

Ei punse i ricchi e i nobili

che adorano un sol Dio: il Dio dell’oro.

E che, sprezzando il popolo,

calpèstan dignità, fede, decòro.

Piangi, diletta Napoli:

il gran Maestro tuo, ahi, non è più!

Chi ti farà più frèmere,

chi ti sarà di sprone alla virtù? [56]

   Il manifesto degli operai ed il necrologio in rima costituiscono, molto probabilmente, la migliore e più sintetica descrizione del pensiero, dell’opera, e della persona stessa di Francesco Mastriani.

.

 
Francesco Mastriani (Napoli,1819-1891)

Il pensiero di Mastriani
Egli non era “socialista”, come qualcuno scrisse dopo la sua morte
[57] né avrebbe potuto esserlo, e la definizione di “trilogia socialista” data alle sue opere principali (“I Vermi”, “Le ombre” e “I misteri di Napoli”) certamente non è appropriata; e questo perché:

–      il partito socialista italiano nacque nel 1892 e quindi dopo la sua morte; né, d’altronde, risultano nei suoi romanzi riferimenti al pensiero anarchico, che pure, in quegli anni, andava diffondendosi a Napoli, con la presenza dello stesso Bakunin [58];

–      la sua concezione del mondo non era quella marxista o comunque di matrice hegeliana, ma l’equilibrato e sapiente umanesimo cristiano che aveva appreso, fin da ragazzo, sui libri del filosofo Pasquale Galluppi;

–      la sua vera vocazione non era quella di politico, e nemmeno di scrittore fine a se stesso, bensì quella di Maestro, nel senso più nobile del termine: fratello, in questo, di quei maestri e maestre delle scuole elementari pubbliche che si andavano allora istituendo su più larga scala [59].

   Non nutriva, nei confronti della plebe urbana, quel misto di paura, disprezzo e commiserazione che era tipico della piccola borghesia; e ne condivise anzi, anche materialmente, le sofferenze e la precarietà economica: “come noi, soffrì dolori inenarrabili, comuni ad una gente che aspetta la redenzione sua nel mondo”.

“Il professore”, come tutti lo chiamavano, appariva alla gente del popolo “come il suo filosofo, educatore, consigliere e vìndice” (Benedetto Croce).

   Il suo saggio umanesimo, cristiano e “galluppiano”, gli insegnava che nessun essere umano può mai essere, riduttivamente e semplicisticamente, “identificato” con la sua miseria e la sua ignoranza, anche se nessuno più di lui si rendeva conto della necessità di elevare culturalmente e moralmente il gran “corpaccio” della plebe urbana, affinché potesse sedersi, al pari degli altri, a quella mensa dei beni terrestri che Dio, Padre di tutti, per tutti ha apparecchiato.

 

L’opera di Mastriani

   “Il povero onesto, la innocente figlia del popolo e il giovin signore” sono egualmente esposti agli “agguati che lor tendono incessantemente quelli che speculano su l’ozio, su la miseria e su l’ignoranza”.

Còmpito del “letterato” è quello di “farli frèmere per spronarli alla virtù”: non soltanto additare la zizzania (= i vizi) ma aiutare il grano (= le virtù) a crescere: questa è “opera santa, quali si vogliano i mezzi che a ciò s’impieghino” …

   Perciò egli, prima ancora di scrivere romanzi, si pose a scrivere opere teatrali, di più immediata fruizione per un pubblico prevalentemente di analfabeti; ed anche molti dei suoi romanzi furono poi, da lui stesso, adattati per la rappresentazione teatrale.

Per il resto, nel vicolo bastava comprare una sola copia del giornale e poi pregare qualcuno più “acculturato” di leggere la “puntata” del romanzo d’appendice di Mastriani al folto pubblico di uomini, donne, giovani, vecchi e bambini prontamente riunitosi.

Molte vicende tratte dai suoi romanzi venivano addirittura narrate dai “cantastorie”, con cartelloni illustrati ed immancabile colonna sonora di musica e canto.

   Di lui, si contano in tutto 105 titoli di romanzi, una trentina dei quali da considerarsi inediti nel senso che, lui vivente, vennero pubblicati solo in appendice al giornale “Roma” e non in volume da alcun editore.

Bisogna considerare inoltre le opere teatrali, del genere comico e di quello drammatico, ed i numerosi articoli di giornale di vario tipo.

   Per introdursi allo studio dell’opera di Francesco Mastriani, della quale è in atto una sistematica ed incontestabile rivalutazione, dopo la diminutio a lungo operata dalla critica [60], consigliamo allo studioso lettore di attingere ai lavori più recenti:

  Cristiana Anna Addesso, Emilio e Rosario Mastriani – “Che somma sventura è nascere a Napoli!”, bio-bibliografia di Francesco Mastriani, con i “Cenni sulla vita e sugli scritti” (1891) tracciati da suo figlio Filippo, Ed. Aracne, 2012.

  Anna Gertrude Pessina – “Francesco Mastriani: un escluso”, Ed. Pironti, Napoli, 2013.

  Il bel sito curato attualmente in rete dai suoi discendenti diretti, i due cugini Emilio e Rosario Mastriani: www.francescomastriani.it i quali stanno anche curando, presso l’Editore Guida, la pubblicazione in volume dei romanzi di Mastriani finora pubblicati solo in appendice al “Roma”.

 

A tàvule, se cumbatte cu ‘a morte    

   Mastriani aveva scelto per sé e per la sua famiglia il motto biblico, tratto dal libro dei Salmi: “Allontànati dal male e fa’ il bene; cerca la pace e persèguila” (Sal 34, 15). 

A questo motto, possiamo dire che cercò sempre di rimanere fedele, nella sua vita e nelle sue opere letterarie, mai cedendo alla disonestà e all’adulazione del potere di turno, nonostante il continuo tormento di dover provvedere alla sua famiglia in mezzo ad una “invincibile miseria”, secondo il detto napoletano: A tàvule, se cumbatte cu ‘a morte.

   E subito dopo la sua morte, Matilde Serao scrisse: “Questo povero vecchio che si è spento oscuramente, carico di anni e di dolori, affranto da un duro e incessante lavoro che gli lesinava il pane, tormentato da una invincibile miseria, non soccorso dalla fredda speculazione giornalistica che lo ha tanto sfruttato, soccorso dalla segreta pietà di poche anime buone, questo martire della penna era, veramente, fra i più forti e più efficaci nostri romanzieri.

L’opera sua, formata da cento e più romanzi, appare grezza, disuguale, talvolta ingenua nella scarsezza delle risorse artistiche; e negli ultimi romanzi suoi è la fretta, lo stento, l’intima straziante pena di chi deve guadagnare, ogni giorno, quelle tre o quattro lire che gli davano: ma da tutta quanta l’opera sua, considerata insieme, emana una così fervida potenza d’invenzione che ha rari riscontri” [61].

 

Francesco Mastriani e Micco Spadàro

   Che quella di Mastriani non sia grande letteratura, è possibile; che non si possa comunque classificare nelle abituali “caselle” della critica letteraria, è certo.

Il suo non è riduttivamente “romanzo d’appendice”, “basso (?) romanticismo” e nemmeno “realismo”, “naturalismo”, “verismo” o altri ismi come “meridionalismo” o i già citati “socialismo” o “anarchismo”.

   Francesco Mastriani non è alcuna di queste cose ed è tutte queste cose insieme. Egli è, semplicemente, scrittore napoletano sui gèneris. E sui gèneris nel senso che può essere considerato l’equivalente letterario, per l’Ottocento, di ciò che sono, per il Seicento, le grandi tele di Micco Spadàro (Domenico Gargiulo, 1609-1675).

.

 
Micco Spadàro – Piazza Mercatello (attuale Piazza Dante) durante la peste del 1656

Le tele di Micco riescono a descrivere, fino al particolare individuale, la vita della imponente massa della plebe urbana, còlta specialmente in quelle che abbiamo chiamato le “circostanze extra-ordinarie” della sua storia, in particolare l’eruzione del Vesuvio del 1631, la sollevazione di Masaniello del 1647, la peste del 1656 …

Mastriani invece compone, con “tutta quanta l’opera sua, considerata insieme”, il vasto affresco della vita di questa stessa classe sociale, vista però nelle “circostanze ordinarie” della sua storia.

   Questo è anche il motivo per cui, ben più che per altri scrittori, la sua opera letteraria non può in alcun modo essere separata dalla sua stessa vita e da quella della classe sociale (la plebe urbana) di cui condivise le sofferenze quotidiane ma anche “le virtù onorate” e le speranze di “redenzione nel mondo”.  

 

La vita di Mastriani

   Nacque il 23 novembre 1819, terzo dei 7 figli di Filippo e di Teresa Cava (Giuseppe, Ferdinando, Francesco, Giovanni, Raffaele, Marianna e Rachele) ma in famiglia c’erano anche Vincenzo e Gennaro, nati da una precedente unione di Teresa Cava con un Raffaele Giardullo.  

 

Il cugino Raffaele Mastriani

   Un suo cugino (= figlio di Ferdinando, fratello di suo padre), a nome Raffaele Mastriani, fu uomo di vasta cultura, assai stimato nel Regno borbonico. Scrisse, infatti, un grande “Dizionario geografico-storico-civile del Regno delle Due Sicilie”, e addirittura tradusse in napoletano l’intera “Divina Commedia” di Dante, con il titolo “Dante sbrugliàto, schiarùto, arredùtto in prosa con la lengua napolitana e le chiacchiere di tutti li cummentature … pe’ fa’ scénnere la cunuscenza de stu bellissimo libro a lu popolo vascio”.

Questo cugino lo aiutò in varie circostanze, anche ospitandolo in casa sua, e divenne altresì suo suocero, in quanto il Nostro sposò nel 1845 Concetta Mastriani, figlia appunto di suo cugino Raffaele.

 

A scuola (1825-1834)

   Nel 1825, a sei anni di età, venne posto alla Scuola di Don Raffaele Farina, dove ebbe compagno di studi, fra gli altri, il futuro giurista, patriota italiano e poi deputato e ministro della Sinistra liberale, Pasquale Stanislao Mancini (1817-1888).

Sortì dalla scuola di Don Farina nel 1832, a tredici anni, passando prima all’Istituto Vinelli e poi a quello di Raffaele De Antonellis: quando ne uscì, nel 1834, il De Antonellis si dichiarò “dolente della perdita del primo filosofo del mio Istituto” … ed aveva solo 15 anni!

   Due considerazioni possono qui farsi: la prima, che nell’oscurantista Regno borbonico si cominciava a studiare filosofia già in età che oggi giudicheremmo precoce; la seconda, che è opportuno approfondire adeguatamente i rapporti fra il pensiero di Mastriani, quale si manifesterà nei suoi romanzi e nella sua stessa vita, e l’opera filosofica di Pasquale Galluppi.

   In quel tempo, infatti, a Napoli, dire “filosofia” significava ipso facto riferirsi , direttamente o indirettamente, al barone di Cirella e patrizio di Tropèa, che nel 1831, dal giovane Re Ferdinando II, era stato nominato “per chiara fama” a quella cattedra di Logica e Metafisica dell’Università di Napoli che era stata di Antonio Genovesi.

Per quella cattedra, il Ministro dell’Istruzione, che era in quel tempo il marchese di Pietracatella, Giuseppe Ceva Grimaldi, ritenne inutile e comunque impossibile organizzare un concorso, perché … “Chi c’è a Napoli che può esaminare il barone Galluppi?”

 

 
Pasquale Galluppi

(Tropea,1770 – Napoli,1846)

Pasquale Galluppi

    Ma chi era dunque Pasquale Galluppi? Lui stesso scrive di sé:

“Io nacqui nella città di Tropèa, provincia di Calabria Ultra II, il 2 aprile dell’anno 1770. I miei genitori furono il Barone don Vincenzo e donna Lucrezia Galluppi, tutti e due della stessa famiglia Galluppi, una delle antiche famiglie patrizie della città di Tropèa.

   Dopo lo studio della lingua latina secondo il metodo di quel tempo in Tropèa, nell’età di anni tredici andai ad apprendere gli elementi della filosofia e della matematica alla scuola di Don Giuseppe Antonio Ruffa, che in quel tempo insegnava queste scienze in Tropèa.

Quell’amabile Maestro mi pose in mano la Logica italiana dell’abate Genovesi e gli elementi di Geometria di Euclide; egli seppe imprimere nell’animo mio la più forte passione per le filosofiche e matematiche discipline, in modo che, vedendo io ancor oggi i due libri, dai quali cominciò il mio corso di studii, provo una certa commozione…” [62].

 

Galluppi a Napoli (1788 – 1794)

   “All’età di diciotto anni (1788), (Galluppi) fu mandato in Napoli perché studiasse giurisprudenza. Ma nella città partenopea perduravano i motivi che, come già era successo al Gravina e al Vico, creavano negli spiriti più sensibili un certo disdegno per questa disciplina, per la cattiva reputazione in cui l’aveva fatta cadere la categoria degli avvocati, preoccupati più del successo e del guadagno che del trionfo della giustizia.

Galluppi, deludendo le attese paterne, non si sentì di abbracciare la pur lucrosa professione dei “paglietta”, come con voce popolare spregiativa … venivano chiamati nella città partenopea gli avvocati.

   A Napoli rimase sei anni. All’Università ascoltò le lezioni di storia e di teologia di Francesco Conforti (1743-1799), il quale esercitò sul giovane un influsso in senso liberale (e giansenista).

Studiò la Bibbia, la storia antica, la storia della Chiesa e i Padri dei primi secoli, attaccandosi, come egli si esprime nell’Autobiografia, specialmente a S. Agostino” [63].

 

Galluppi: il matrimonio e 14 figli

   “Nel 1794, l’autorità paterna lo distolse dai suoi studi preferiti, ed egli dovette fare ritorno a Tropèa, invitato a pensare al matrimonio e al reggimento domestico.

Il 6 dicembre dello stesso anno si unì in matrimonio con la baronessa Barbara d’Aquino, donna d’illibati costumi, lodata per cortesia di modi e per la nobiltà del casato …” [64]

   “Sono ammogliato sin dall’anno 1794 con donna Barbara D’Aquino … Con essa procreai quattordici figlioli, otto maschi e sei femmine. Io sebbene nato a Tropèa e che non l’avessi giammai veduta, fui destinato ad unirmi a lei col sacro vincolo del matrimonio. Si effettuò il sacro vincolo nuziale senza averci veduti … noi ci vedemmo quando già eravamo con indissolubil nodo uniti. Nel vederci, ci amammo e il nostro amore fu costante” [65].

 

Galluppi: la “Memoria apologetica” (1795)

   L’influenza giansenista del Conforti è visibile nella vicenda della controversia con alcuni esponenti del clero tropeano. Il Galluppi, in una dissertazione letta nella Règia Accademia degli Affaticati, aveva sostenuto una tesi teologica particolarmente rigorista e cioè che, nei pagani, anche le supposte virtù sono invece dei peccati, in quanto essi mancano della “vera carità” che è l’amore verso l’unico Dio consapevolmente conosciuto ed accettato.

Per il che, il Nostro venne accusato di eresia ed egli, in sua difesa, scrisse una “Memoria apologetica” indirizzata il 26 aprile 1795 al vescovo di Anemuria e abate di S. Lucia del Mela, Mons. Carlo Santacolomba. Dopo solo pochi giorni, il 4 maggio 1795, il Santacolomba rispose riconoscendo l’infondatezza delle accuse a lui rivolte.

.

 Galluppi nel 1799 e nel 1820

   L’influenza liberale del Conforti si manifestò invece in occasione delle drammatiche vicende della Repubblica napoletana del 1799, della quale il Conforti stesso fu uno dei dirigenti più in vista.

In quelle circostanze, in Tropèa, il Galluppi accettò di “fare traduzioni” dal francese, per conto delle autorità repubblicane, di fogli di propaganda e di direttive governative.

Rimase poi per alcuni mesi prigioniero a Pizzo Calabro, essendo stato compreso tra gli ostaggi richiesti dal cardinale Ruffo che, a capo dell’armata sanfedista, risaliva dalla Calabria per liberare Napoli.

Successivamente, nel periodo del Decennio francese (1805-15), venne chiamato da Giuseppe Bonaparte a ricoprire la carica di “controllore delle contribuzioni dirette”, che conservò poi per 17 anni: anche, perciò, sotto il restaurato governo borbonico. 

   Nel 1820-21, si schierò pubblicamente a favore della Costituzione e protestò con fermezza, in seguito, contro l’intervento repressivo degli Austriaci.

 

Galluppi a Tropèa (1820-1830)

   “Si restrinse quindi entro ai brevi confini della nativa Tropèa, donde non si allontanò mai fino al 1830, attendendo solo agli affari domestici ed alla composizione delle sue opere filosofiche … in fama di uomo integerrimo ed alieno per natura da ogni briga … amato e tenuto in somma venerazione dalla universalità de’ suoi compaesani” [66].

.

 
Case e busto di Pasquale Galluppi a Tropèa

   Tropèa, del resto, anche se di “brevi confini”, era tutt’altro che un leopardiano “borgo selvaggio”.

“La sua condizione di città demaniale, libera da dominio feudale, costituisce uno dei principali elementi della sua identità storica.

Galluppi deve anche alla particolare ubicazione della sua città natale, assurta a snodo marittimo di notevole importanza, la possibilità di tenersi aggiornato circa le pubblicazioni a carattere filosofico del resto d’Italia e d’Europa. I marinai di Parghelia, infatti, dietro suo incarico, gli recavano le novità presenti sul mercato librario di Napoli e di Marsiglia.

Il suo appuntamento col pensiero europeo fu anche favorito dalle ben fornite biblioteche esistenti presso le numerose Comunità religiose e alcune famiglie di Tropèa” [67].

   Vi erano infatti membri del clero e patrizi locali molto eruditi, e nel 1759 Antonio Jerocades (Parghelia, 1738; Tropèa, 1803) aveva aperto nella vicina Parghelia “una fiorente scuola, cui portò il lume delle più belle letterarie e scientifiche cognizioni, insegnando, oltre il latino e l’italiano, anche il francese, il greco e l’ebreo, ed il più metodico corso di filosofia e di matematica” [68].

 

Galluppi e la cattedra di filosofia (Settembrini)

   Luigi Settembrini, nelle sue “Ricordanze” riporta il modo in cui il Galluppi, nel 1831, ottenne la cattedra di filosofia all’Università di Napoli: 

“Udii dallo stesso Galluppi raccontare il modo ond’egli fu nominato professore.

Il barone Pasquale Galluppi di Tropèa, cittadella di Calabria, sosteneva la sua onesta povertà ed undici figliuoli con un ufficio di controllore nelle dogane. Le cure della famiglia e le noie dell’uffizio non lo toglievano da’ suoi studi filosofici, nei quali egli era sì assorto e si profondava tanto da non udire il diavoletto che gli facevano intorno un vespaio di fanciulli.

Scrisse un Saggio critico su le conoscenze umane che, stampato in Messina, fu conosciuto poco in Italia, e levò alto il nome del Galluppi in Francia e in Germania.

   Essendo vacante la cattedra di filosofia nell’università, gli amici lo consigliarono e la sua coscienza lo persuase a chiederla. Venne in Napoli, andò dal ministro dell’interno, gli presentò il libro, e chiese la cattedra.

Il ministro, che non lo conosceva, rispose: — Bene: vi cimenterete all’esame.

Ed egli: — E cu c’è a Napoli che po’ esaminari Pasquale Galluppi?

II ministro si strinse nelle spalle, e l’accomiatò con un “vedremo”. La sera raccontò nel crocchio degli amici come un vecchietto calabrese e mezzo matto era andato a chiedergli la cattedra, e tutto ringalluzzito gli aveva detto non ci essere in Napoli chi potesse esaminarlo.

Ci fu qualcuno che dimandò: — Fosse egli il Galluppi? — Non ricordo il nome: leggetelo nel libro che mi ha dato. — È desso, è il Galluppi, il primo filosofo vivente d’Italia —.

Sua Eccellenza cadde dalle nuvole: s’informò da altri, udì lo stesso, e lo pregarono desse quest’ ornamento all’Università di Napoli. E così il Galluppi, ricercato bene se egli avesse qualche vecchio peccato politico e trovato netto, fu senz’altro nominato professore quand’egli non se l’aspettava né ci pensava più.

   Con che festa noi giovani, e con quanta calca tutte le colte persone, si andò a udire la sua prolusione, e poi le lezioni che egli, appollaiato su la cattedra, dettava con l’accento tagliente del suo dialetto!

Ci sono sempre i maldicenti, i quali dicevano che egli era mezzo barbaro nel parlare; ma in quel parlare era una forza di verità nuove; ma l’ingegno era grande, e il cuore quanto l’ingegno. Che buon vecchio! E quanto amava i giovani!”

 

Galluppi e la cattedra di filosofia (Tulelli)

   Un altro discepolo del Galluppi, Paolo Emilio Tulelli, racconta anch’egli quel fatto, anche se in modo leggermente diverso: 

“Nel 1831 … recàtosi per interessi di famiglia in Napoli, ebbe conferita la Cattedra di filosofia nell’Università.

Ciò si deve attribuire alle alquanto migliorate condizioni politiche del nostro paese in sui primordi del Regno del secondo Ferdinando, ed alla efficace azione di Domenico Cassini, uno dei più illustri giureconsulti del foro napolitano ed avvocato del Galluppi.

Infatti il Cassini, scudo, amico e familiare del ministro marchese di Pietracatella, ebbe modo di renderlo persuaso del merito incontestabile del filosofo calabrese e disporre l’animo del ministro in favore del suo illustre cliente.

   A questo proposito, non stimo cosa inutile di raccontare un aneddoto singolare intervenuto nel primo incontrarsi del Galluppi col ministro Pietracatella.

Questi, desideroso di conoscere personalmente il Galluppi, indusse l’avvocato Cassini a presentarglielo. Il Galluppi, ignaro delle segrete pratiche del suo avvocato, si lasciò condurre in casa del ministro per fargli semplice visita di cortesia.

Durante la lunga e familiare conversazione, il Pietracatella introdusse il discorso intorno a cose di pubblica istruzione ed al bisogno che si avea di provvedere di professore, mediante pubblico concorso, la vacante cattedra di filosofia nell’Università. Al qual proposito, il ministro disse al Galluppi: – Ebbene, Signor Barone, non potrebbe ella essere ancor uno dei concorrenti a quella Cattedra?

E quegli prontamente rispose: – E chi sarebbe, in Napoli, l’esaminatore di Pasquale Galluppi? Signor ministro, l’autore del Saggio sulla Critica dell’umana conoscenza è stato giudicato dall’intiera Europa!” [69].

.

Le opere di Galluppi

   In effetti, nel 1831, il Galluppi aveva già scritto: “Sull’analisi e la sintesi” (1807); “Saggio filosofico sulla critica della conoscenza” (1819); “Elementi di filosofia” (1820-1826); “Lettere filosofiche sulle vicende della filosofia, relativamente ai princìpi delle conoscenze umane, da Cartesio sino a Kant” (1827).

A questi scritti seguiranno poi quelli da cattedratico e cioè le “Lezioni di logica e metafisica” e “La filosofia della volontà”.

   “Apparentemente assente dalla vita culturale e politica del Regno di Napoli e dell’Europa, Galluppi si pone invece nel bel mezzo degli eventi filosofici del suo tempo e ne interpreta le istanze profonde, e riesce a trasferire nell’Italia meridionale la complessità e raffinatezza della filosofia europea, in tutta la sua portata storica e in tutta la sua articolazione ideale.

Così, stranamente, questo provinciale di Tropèa si trova a svolgere il ruolo più avanzato nella cultura italiana dei primi decenni dell’Ottocento, entra in relazione con i più grandi intellettuali d’Europa e ricostruisce il filo conduttore della filosofia moderna …  cercando il senso autentico della storia, dei valori interiori e della realtà.

E questo fatto basterebbe a decretare i meriti filosofici di uno studioso sensibilissimo ad afferrare le punte più avanzate della filosofia moderna e saperle elaborare in proprio, con ampia capacità di selezione e discernimento critico” [70].

   “Il merito maggiore di Galluppi risiede nell’avere, con gli Elementi di filosofia ma soprattutto con le Lettere filosofiche, introdotto nel nostro paese lo studio e la conoscenza della nuova filosofia europea, soprattutto quella kantiana.

Le Lettere filosofiche furono definite, a ragion veduta, il primo saggio in Italia di una storia della filosofia moderna, mentre gli Elementi di filosofia ebbero una larghissima diffusione nelle scuole” (Diego Fusàro).

   Lui stesso fu autore di un piccolo libro intitolato “Introduzione allo studio della filosofia per uso dei fanciulli”, che conferma quanto abbiamo detto sopra …

 

Pasquale Galluppi AI GIOVANETTI AMANTI DEL VERO SAPERE

   “Da un secolo in qua lo stato della filosofia è quasi interamente cambiato: quindi agli antichi elementi debbono sostituirsi i nuovi. Eccellenti libri spargono incessantemente la luce nel mondo filosofico; ma ciò non ostante non abbiamo ancora buoni elementi.

Per formar questi, fa d’uopo seguire con uno spirito di analisi tutta la storia della filosofia; fermarsi specialmente all’epoca dell’attuale rivoluzione filosofica; esaminare profondamente le cause che l’hanno fatta nascere; leggere in conseguenza, e far l’analisi, di tutti i libri classici delle diversi scuole filosofiche, che da Cartesio sino a questo giorno si sono stabilite nell’Europa culta: solamente un tale studio può porre il pensatore in istato di scrivere buoni elementi.

Posso assicurarvi di aver fatto diligentemente questo cotanto laborioso studio, e ciò credo che mi dia il diritto di dare al Pubblico gli Elementi della Filosofia.

Essi conterranno pertanto … (segue l’esposizione sommaria del contenuto).

   Questa mia terza edizione è notabilmente migliorata: alla logica pura ho aggiunto un capitolo d’introduzione allo studio della filosofia: più, a ciascuna parte del corso ho aggiunto un riassunto a dialogo: e siccome nel corso dell’opera ho seguito il metodo analitico, così nel riassunto seguirò il metodo sintetico.

In tal modo spero, che sarete bene instruiti. Vivete felici”.

   Molto probabilmente, sono proprio queste parole della “Dedica” agli Elementi di filosofia, pubblicati proprio alcuni anni prima (1820-26), che il Mastriani incontrò alla scuola del De Antonellis nel 1833-34.

 

Altri studi di Mastriani (1834-1835)

   Il quale Francesco Mastriani, nel 1834, dopo gli elementi di filosofia, cominciò a studiare il diritto romano con l’avvocato Antonio Fedele, avendo intenzione di abbracciare la professione legale, mentre nel frattempo approfondiva lo studio della lingua francese col maestro Lopez.

Nel 1835 “divorò” tutta la biblioteca del Lopez: circa 400 volumi di letteratura europea, inclusi Shakespeare, Rousseau, Chateaubriand, le tragedie di Alfieri ed ovviamente la Divina Commedia di Dante, in italiano oltre che in napoletano.

   Ma il libro di tutta la sua vita fu sempre la Bibbia, che egli certamente leggeva nell’unica versione allora disponibile cioè la versione latina di S. Girolamo (la cosiddetta Vulgàta) e di cui aveva una conoscenza a quel tempo inusuale anche fra i credenti colti.

 

Mastriani: prima del matrimonio (1836-1844)

   Nell’anno 1836, il padre lo volle impiegato presso la Società Industriale Partenopea, allora diretta dal Principe di Satriano Carlo Filangieri.

La notte del 28 novembre di quello stesso anno, morì improvvisamente, all’età di 60 anni, sua madre Teresa Cava, e lui, l’8 dicembre, fece stampare la sua prima opera scritta, una poesia intitolata “Un sospiro alla memoria di lei”.

   Nel 1837 cominciò anche a studiare Medicina, ma non portò mai a termine gli studi, preferendo invece dedicare il suo tempo libero dall’impiego a scrivere per i giornali e per il teatro: attività ben presto incoraggiata anche dal padre, e che divenne poi sempre più prevalente dopo la morte di questi, avvenuta il 21 aprile del 1842.

Iniziò con articoletti di vario genere su piccoli giornali come Gli animosi e La Lanterna magica e continuò poi con giornali letterari come La Galleria del SecoloIl SibiloL’interpreteIl Salvator Rosa.

   Nel 1838, cominciò anche a dare lezioni private di francese e di inglese, attività che svolse, a fasi alterne, per tutto il resto della sua vita, insieme a quella di guida turistica per gli stranieri che venivano a conoscere le bellezze della città.

   In quegli anni, insieme all’amico Francesco Rubino, scrisse anche i drammi “Vito Bergamaschi” (1840) e “Biancolelli” (1841) che furono rappresentati con successo al Teatro Fiorentini.

 

Mastriani: il matrimonio (1844)

   Del 4 agosto 1844 è la “promessa di matrimonio” con Concetta Mastriani, figlia di suo cugino Raffaele, che sposerà nell’ottobre dello stesso anno.

Subito dopo il matrimonio, lasciò definitivamente l’impiego presso la Società Industriale Partenopea: avrebbe certo voluto dedicarsi interamente alla sua vocazione letteraria ma, all’ epoca, solo i benestanti e sedentari potevano permettersi di essere anche solo scrittori.

In realtà, il Nostro mantenne se stesso e la famiglia eseguendo traduzioni dal francese e dall’inglese nonché con l’insegnamento privato di queste lingue; in seguito, aumentando la famigliola, si procurò anche un modesto impiego alla dogana.

E la gente del popolo, riconoscendolo mentre correva tra l’ufficio della dogana, la tipografia in cui si stampavano i suoi libri, ed i palazzi nei quali abitavano i suoi giovani allievi, lo indicava come “l’autore dei romanzi di Francesco Mastriani”.

 

I figli – Filippo Mastriani

   Dal matrimonio nacquero 4 figli: Sofia (nel 1846); Filippo (1848); Edmondo (1851); e Adolfo (1853).

Di questi, però, ben tre pre-morirono al padre: Adolfo morì nel 1857 (a 4 anni di età); Edmondo nel 1875 (a 24 anni); e Sofia nel 1878 (a 32 anni).

Unico figlio superstite fu dunque Filippo, che pochi mesi dopo la morte del padre scrisse i “Cenni sulla vita e sulle opere di Francesco Mastriani”, documento ovviamente fondamentale per la ricostruzione storica della figura del romanziere.

   Anche Filippo Mastriani si dedicò alla narrativa: risulta autore di 12 romanzi, fra i quali “Un camorrista di 15 anni” e “Amori e delitti dei briganti Cipriano e Giona La Gala”.

Realizzò inoltre traduzioni dal tedesco e dall’inglese, tra cui anche “Uno studio in rosso” (1887) che è il primo romanzo scritto da Arthur Conan Doyle (1859-1930) avente come protagonista il quind’innanzi celebre investigatore Sherlock Holmes.

 

Mastriani: ‘o pesòne e gli sfratti

   La vita familiare di Francesco Mastriani è contrassegnata dai continui “sfratti” che subiva da parte dei vari “padroni di casa”.

In perenne difficoltà a pagare l’affitto, come molti altri napoletani (non a caso, in napoletano, ‘o pesòne significa sia “pigione, costo dell’affitto” sia “grosso peso”), era costretto a continui “quatto ‘e maggio” (gli sfratti di solito venivano eseguiti il 4 maggio).

   La prima abitazione fu alla Via Concezione a Montecalvario, n°52.

Dopo la morte del padre (1842) si trasferì alla Salita Infrascata, n°271.

Dopo il matrimonio (1845), fittò un “casinetto” allo Scudillo, dove nacque la prima figlia Sofia.

Nel 1848, è alla Via Teatro Nuovo, n°54 e poi in un altro “casinetto” al Vico Lieto a Capodimonte.  

Nel 1849, in Salita Tarsia, n°18.

Nel 1854, a S. Teresa degli Spagnoli.

Nel 1861, Via S. Mandato, n°78.

Nel 1864, Largo Petroni alla Salute, n°7.

Nel 1865, Vico Nocelle.

Nel 1866, Strada Tarsia nel Fondo Avellino.

Nel 1869, alle “Case operaie” nell’Emiciclo di Capodimonte.

Nel 1881, alla Strada Fonseca, n°80.

Nel 1883, nel Palazzo D’Agostino alla Sanità, n°97.

Dopo il 1885, alla Salita Scudillo, n°4 e poi alla Via Capodimonte.

Nel 1889, in Penninata S. Gennaro dei Poveri, n°29 e poi in un “quartino” al Moiariello a Capodimonte.

Nel 1890, ritorno a S. Gennaro dei Poveri il 4 maggio, poi ad agosto in Largo Amoretti, ed infine in ottobre di nuovo a S. Gennaro dei Poveri, dove morì il 5 gennaio del 1891.

   Il periodo di residenza più lungo è perciò quello alle “Case operaie”, dove visse per circa 12 anni e dove morirono i figli Edmondo e Sofia.

L’attento lettore, volendo, potrà contare ben 20 trasferimenti e, se avrà la pazienza di andarli a “visualizzare” su una cartina stradale di Napoli, vedrà come Mastriani abbia potuto conoscere “per immersione diretta” quella Napoli popolare che descrive nei suoi libri.

.

 
Lapide in Penninata S. Gennaro dei Poveri (potevano almeno tagliare lo spigolo!)

Mastriani: l’esperienza a “Il Tempo” ed il 1848

   “Il Tempo” era un giornale di tendenza moderatamente liberaleggiante, fondato da Carlo Troya e Saverio Baldacchini, due intellettuali napoletani già coinvolti nelle vicende del 1820-21.

Il primo numero uscì il 21 febbraio 1848, a ridosso delle turbolente vicissitudini di quell’anno, nel quale lo stesso Carlo Troya fu, per un breve periodo (dal 3 aprile al 15 maggio), a capo del primo governo costituzionale.

Ma, con la fine dell’esperienza parlamentare napoletana, a partire dal 2 giugno 1848 il giornale cambiò proprietario e linea politica, che divenne marcatamente conservatrice ed antiliberale.

   Fin dall’inizio, il Mastriani fu impiegato presso la direzione del quotidiano, con lo stipendio mensile di ducati 30, adibito specialmente alle traduzioni dal francese e dall’inglese. Non sembra, però, che fosse particolarmente legato alle opinioni politiche espresse dal giornale, né risulta una sua partecipazione agli eventi del 1848.

Del resto, perché mai avrebbe dovuto partecipare?

Quella “rivoluzione” non era certo fatta dal popolo, ma da intellettuali borghesi, che si proponevano obiettivi del tipo:

–      l’istituzione di un “parlamento”, per il quale avrebbero avuto diritto di voto solo quelli che superavano un certo livello di reddito, quando la maggior parte della popolazione napoletana a mala pena riusciva a sopravvivere;

–      la conquista della “libertà di stampa”, quando la maggior parte della popolazione napoletana era completamente analfabeta;

–      la conquista della “libertà di pensiero e di parola”, quando la maggior parte della popolazione napoletana, per forza di cose, doveva “pensare” prima di tutto a cosa avrebbero mangiato i propri figli in quello stesso giorno …  

   Lui, dunque, per quanto lo riguardava, nel famoso 1848 pubblicò il suo primo romanzo, intitolato “Sotto altro cielo” e Il Tempo (la nuova gestione?) gli aumentò lo stipendio a ducati 35.

Due anni dopo, nell’aprile del 1850, il nuovo direttore de Il Tempo, soddisfatto dell’opera che prestava, gli aumentò lo stipendio a ducati 40 e addirittura, nell’ottobre del medesimo anno, la stessa direzione del giornale venne affidata al Mastriani, con un compenso mensile di 45 ducati.

Purtroppo però, dopo solo tre mesi (ottobre-dicembre 1850), la pubblicazione del giornale cessò completamente. Aumentarono quindi le sue difficoltà economiche, mentre pure aumentava la sua famigliola.

 

L’esperienza nei giornali “istituzionali” borbonici ed il colera del 1854

   La chiusura de Il Tempo lo spinse ad accettare la nomina, probabilmente favorita anche dal prestigio di cui godeva il cugino-suocero Raffaele, al posto di “compilatore” del Giornale del Regno delle due Sicilie, che pubblicava gli Atti ufficiali del Governo, nonché del giornale ministeriale L’ordine.

Solo dopo 3 mesi, nel marzo del 1851, ricevette una prima gratificazione di 30 ducati, e continuò a lavorare con occasionali gratificazioni economiche fino al 1854; in quel periodo gli cominciò una malattia viscerale. 

Così, il 7 febbraio 1855 poté ricevere dalla cassa del Ministero il suo primo vero stipendio, di ducati 12, relativo al precedente mese di gennaio, elevato in seguito a ducati 15 mensili, per opera soprattutto del nuovo “Direttore della Real Segreteria e Ministero di Stato della Polizia generale” Orazio Mazza, che volle conferire più dignitose condizioni economiche e normative ai dipendenti ministeriali.

   Continuando sempre a far parte della redazione del Giornale delle due Sicilie, dal primo ottobre 1858 fu incaricato dal Ministero della Polizia Generale della “revisione” di vari fogli letterari (= svolse il ruolo istituzionale di censòre).

E così, nel mese di luglio del 1859, dal Ministro degli Interni e Polizia Generale, Liborio Romano, gli venne aumentato lo stipendio a ducati 25.

Mastriani: i 13 romanzi anteriori al 1860

   . Nel 1848, come detto, esce il suo primo romanzo, che è “Sotto altro cielo”, cui fanno seguito, fino al 1860, altri 12 romanzi, fra i quali: “La cieca di Sorrento” (1851); “Il mio cadavere” (1851), con un prosieguo in “Federico Lennois” (1852); “La comare di Borgo Loreto” (1854); “Angiolina o la corìfea” (1857); e “La poltrona del diavolo” (1859). Da segnalare, fra questi 13 ante-1860, anche la presenza di tre romanzi del genere comico-umoristico.

 

Mastriani: il primo scrittore europeo di “gialli”

   Or dunque: lo scrittore statunitense Edgar Allan Poe (1809-1849) fa storia a sé; ma, per il romanzo “Il mio cadavere”, del 1851, Mastriani è senz’altro da considerarsi il primo scrittore europeo del genere “giallo”, essendo il suo lavoro ben anteriore al celebre “La pietra di luna” di Wilkie Collins (1824-1889) che uscì nel 1868, ed ancor più al già citato “Uno studio in rosso” di Arthur Conan Doyle (1859-1930) che è del 1887.

 

Angiolina e … Ginevra

   Molto interessante è anche il romanzo “Angiolina o la corìfea” (1857), soprattutto per il confronto, che l’attento lettore potrà fare, con l’immeritatamente un po’ più noto “Ginevra o l’orfana della Nunziata” di Antonio Ranieri (1806-1888), il molto discusso sodàle di Giacomo Leopardi.

Il Ranieri aveva pubblicato la sua “Ginevra” la prima volta nel 1839, denunciando maltrattamenti ed abusi presso il celebre ricovero per bambini abbandonati “dell’Annunziata” in Napoli.

Ma egli era mediocre scrittore oltre che mediocrissimo uomo, come poi meglio si vide con la pubblicazione dei suoi “Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi” (1880).

Per imperizia letteraria e malafede politica, esagerò dunque in maniera finanche grottesca gli abusi e le carenze pur realmente presenti alla Nunziata ed avvenne semplicemente che l’allora Ministro dell’interno Niccolò Santangelo, essendo fratello del capo dell’amministrazione della Nunziata, lo fece detenere in prigione per 45 giorni.

Ma il re Ferdinando II di Borbone (anche in seguito alla intercessione del presidente del consiglio dei ministri Giuseppe Ceva Grimaldi, che era ostile al Santangelo) lo fece liberare ed assegnò 50 mila ducati in più di rendita alla Nunziata e all’Albergo dei poveri, cambiandone anche l’amministrazione, al fine di eliminare le carenze e gli abusi realmente riscontrati.

   Quegli “eroici” 45 giorni di carcere fecero però di lui, dopo il 1860, una sorta di “martire” del Risorgimento: egli, che era stato assai cautamente liberale nel 1848 e figurava semplicemente fra i notabili che si recarono a Grottammare per invitare Vittorio Emanuele II ad invadere il Regno delle due Sicilie “a nome del popolo napoletano”, si ebbe il posto di deputato del Regno d’Italia per 20 anni (dal 1861 al 1881) e subito dopo di senatore fino alla morte (1882-1888), nonché una cattedra di “Filosofia della storia” presso l’Università di Napoli, per chiari meriti solo politici.

   Il Mastriani, con la sua “Angiolina”, a confronto col Ranieri e la sua “Ginevra”, appare, a giudizio di chi scrive, un gigante, sia come scrittore sia come uompo.

 

 
Angiolina nell’edizione Salàni

Dopo il 1860: le sventure di un non-sabàudo

   Nel settembre del 1860, Francesco Mastriani indossò, sia pure per breve tempo, la divisa della Guardia Nazionale cittadina, allora ristrutturata dal Ministro dell’Interno Liborio Romano con l’intenzione di favorire un “passaggio dei poteri”, il più possibile indolore, tra Francesco II di Borbone, che usciva da Napoli per tentare un’ultima resistenza nella fortezza di Gaeta, e Garibaldi che era ormai prossimo ad entrarvi. 

In quel cruciale settembre, egli “respirò nell’aria” l’entusiasmo e le speranze che l’ingresso di Garibaldi in Napoli accese, non solo nella classe borghese liberale ma anche in larghi strati del popolo minuto. Ma anch’egli, come quasi tutti, ne rimase ben presto deluso.                                     

   Dopo l’occupazione sabauda nel 1860, e precisamente il 1°maggio 1862, cessò la pubblicazione del Giornale del Regno delle due Sicilie e Mastriani, come gli altri redattori, fu dapprima collocato “in aspettativa” con intero stipendio il 24 settembre 1862, e l’anno dopo, con il Decreto N°1384 emesso da Torino il 19 luglio 1863, dichiarato “in disponibilità”.

Il 17 aprile del 1865, rinunciò ai suoi diritti di “impiegato in disponibilità”, in cambio della somma una tantum, al netto di trattenute, di lire 1142,20 corrispondente ad un’annata di stipendio.

 Il fatto di aver collaborato con giornali borbonici, e forse ancor più di aver riposto grandi, e presto deluse, speranze in Garibaldi, gli procurò la permanente diffidenza, ostilità e sotto-valutazione da parte del nuovo potere sabàudo e della scuola liberale.

Il famoso storico della letteratura Francesco De Sanctis, patriota italiano e Ministro della Pubblica Istruzione nei primi governi post-unitari, non lo ritenne meritevole di alcuna citazione nei suoi studi critici, mentre definì lo scrittore Carlo Tito Dalbono (1817-1880), suo compagno di partito, il “più napoletano de’ Napoletani, come fu detto di Palmerston che era il più inglese degl’Inglesi” [71].

In realtà, il Dalbono, oltre che uomo politico, giornalista, critico d’arte, autore di drammi e di guide turistiche, fu scrittore di insipidi e sin troppo fantasiosi “romanzi storici”, confusamente ispirati a storie e leggende popolari napoletane, senza in realtà essere “né storico né romanziere” (Federico Verdinois).

In ogni caso, è un fatto che i suoi romanzi, già pochi anni dopo la sua morte, non li leggeva più nessuno, mentre quelli di Mastriani diventavano sempre più popolari.

 

I grandi romanzi degli anni Sessanta

   Negli anni Sessanta, il Nostro pubblicò esclusivamente in volumi, la sua celebre trilogia:

1)    I VERMI – Studi storici sulle classi pericolose in Napoli – Tipografia di Luigi Gargiulo, Strada Speranzella n°95, Napoli, 1863. 

2)    LE OMBRE – Lavoro e miseria – Romanzo storico-sociale – Tipografia di Luigi Gargiulo, Strada Speranzella n°95, Napoli, 1868.

3)    I MISTERI DI NAPOLI – Studi storico-sociali – Stabilimento tipografico del Comm. G. Nobile, Vicoletto Salita a’ Ventaglieri n°14, Napoli, 1869.

 

I vermi: il titolo

   Il Mastriani stesso spiega il titolo dell’opera, con le seguenti parole:

“Come il marciume, la sordidezza (= sporcizia) e la morte producono i vermi nel mondo fisico, così l’OZIO, la MISERIA e l’IGNORANZA producono i loro vermi nel mondo morale … i miserabili sono gli appestati della società perciocché sono quelli appunto che più portano scoverta la piaga che li rode; mentre gli oziosi gittano su la loro cangrena le essenze più prelibate e odorose; e gli ignoranti la coprono con una fascia d’oro o di seta”.

 

I vermi: lo scopo

   Egli spiega poi anche lo scopo “utile e morale” che il suo libro si propone:

“Illuminar quindi, per quanto è possibile, il povero onesto, la innocente figlia del popolo e il giovin signore su gli agguati che lor tendono incessantemente quelli che speculano su l’ozio, su la miseria e su l’ignoranza, ci sembra opera santa, quali si vogliano i mezzi che a ciò s’impieghino …

La nostra speranza è che (questo libro) sia letto e propagato fra le classi medesime di cui ci occupiamo, e verso le quali non abbiamo che un sentimento di profonda commiserazione e un desiderio vivissimo di cooperare al salutare ritorno di qualcuno di questi miseri nel seno degli onesti, e nelle ordinarie condizioni della vita sociale, da cui si trovano oggidì segregati ed espulsi”.

 

I vermi: lo stile

   Infine, il Mastriani ci spiega anche il suo stile letterario di “fotografismo topografico” (Luca Torre): fatti veri, particolari esattissimi, luoghi visti anzi studiati da vicino, personaggi realmente esistenti:   

“I fatti su cui si appoggiano i nostri studi storici sono, la maggior parte, veri: i particolari che diamo sui costumi, su le pratiche, sul linguaggio di queste classi sono esattissimi, perciocché, vincendo la ripugnanza che c’ispiravano i luoghi più abbietti, abbiam voluto studiarli da vicino, per offerirne un quadro sincero, comeché sempre velato da quel santo pudore che le lettere non debbono mai abbandonare. I personaggi che figurano in questi nostri racconti sono la maggior parte esistenti …”

 

I vermi: lo schema

   Il libro si articola dunque, con chiaro intento istruttivo, nelle 3 “piaghe” dell’ozio, della miseria e dell’ignoranza, più una conclusione, secondo la schema seguente:

PRIMA PIAGA: L’OZIO

  • Parte prima: La camorra elegante (I – A Posillipo; II – Madama Antonetta; III – Blandina; IV – Le farfallette; V – La trìbade; VI – Carolina; VII – La lotta; VIII – La vittoria).
  • Parte seconda: I vagabondi (I – Il tempo e la potestà paterna; II – Le tarle; III – Dio non paga il sabato).
  • Parte terza: I lavori forzati (I – Il bagno di Nisida; II – Stefano Merli). 

SECONDA PIAGA: LA MISERIA

  • Parte prima: Gli accattoni (Preliminari; I – Francesco Loiodice; II – Il letterato; III – Il figlio dell’esule; IV – La fossa dei poveri; V – L’improba mendicità).
  • Parte seconda: Falsi mestieri e domestici
  • Parte terza: La prostituzione (Preliminari; I – Lucia; II – Le case infami; III – La prima notte; IV – La casina francese; V – Il peccato dell’impurità; VI – La moglie e la druda; VII – La madre; VIII – La riabilitazione; Riepilogo; Il sifilicomio in Napoli).

TERZA PIAGA: L’IGNORANZA

  • Parte prima: Le tenebre (Preliminari; I – Guerra alle intelligenze).
  • Parte seconda: La luce (Capitolo unico: il 28 giugno 1860).
   
 I vermi di Francesco Mastriani

CONCLUSIONE

Ma non come Victor Hugo!

   “Noi avevamo concepita quest’opera molto innanzi che fosse venuto a luce il libro stupendo de’ Miserabili di Vittor Hugo. Confessiamo che la lettura di questo ammirabile lavoro del romanziero francese ci avrebbe scoraggiati dallo intraprendere il nostro, qualora non ci fossimo avveduti della differenza della indole dell’opera, differenza che i nostri lettori rileveranno di per sé, dove attentamente si facciano a leggerci.

Nel resto, non bisogna mai diffidare delle proprie forze quando si ha in vista, non un titolo di vanagloria, ma uno scopo utile e morale, e il bene de’ propri concittadini”.

 

Le ombre: lavoro e miseria

   “Dopo I vermi scrissi I figli del lusso, farfalle sociali che nascondono sotto le loro ali screziate il bruco schifoso.

E poco di poi, scrissi Le ombre in cui, svolgendo la vita dell’operaia nella sua triplice elegia di Orfana, Moglie e Madre, toccai di quella enorme ingiustizia sociale quale è il lavoro donnesco …”

   Tuttavia, il libro per il quale ancor oggi Mastriani è più conosciuto è il celebre “I misteri di Napoli”, del 1869, al cui riguardo, però, del tutto ingiustificati pregiudizi hanno fatto accumulare varie inesattezze, a dissipar le quali non v’è cosa migliore che lasciare la parola allo stesso Mastriani …

.

 
 Le ombre di Francesco Mastriani

I misteri di Napoli secondo Mastriani

   “Gran tempo innanzi di scrivere “I vermi”, “I figli del lusso” e “Le ombre”, avevo divisato di pormi alla presente opera ma non poche ragioni mi dissuasero allora di mettervi mano …

   Erano recentemente venuti a luce (1843) “I misteri di Parigi” del Sue, opera che aveva cattivato le simpatie di tutta Europa e che, in piccolo spazio di tempo, ebbe l’onore di numerose ristampe e traduzioni. La smania di imitare le cose francesi, funesta debolezza in Europa tutta e massime in Italia, fe’ piovere misteri da tutte le parti.

Ogni paesello, ogni borgata, ebbe un Eugenio Sue, tanto che i misteri vennero in parodia… insomma, la maggior parte de’ romanzieri si dettero a scavare nelle fogne della società per mettere in evidenza tutto ciò che, ne’ diversi centri di civili popolazioni, è di più laido e nefando.

  Aborrente, per principio e per gusto, da tutte le grette imitazioni e segnatamente dalle novità che ci vengono da’ nostri vicini di oltralpe, tenni fermo, per non breve spazio di tempo, a non voler apporre il titolo di Misteri di Napoli a nessuna delle mie opere …

Dàtomi, per naturale propensione e per gusto, alla sintesi psicologica delle diverse classi che compongono il civile consorzio, volli attentamente studiare da vicino quella gran sezione degli abitanti d’un vasto centro di popolazione i quali danno il maggior contingente agli sgabelli infami delle Corti di Assise.

Scrissi “I vermi” e quindi “I figli del lusso” … e poco di poi scrissi “Le ombre” …

   Ora, mi si conceda di dire qualche cosa intorno allo scopo che mi prefissi in questo mio nuovo lavoro … Dove io avessi ripescato nel fango della nostra società, non avrei atto altro che ripetere, sotto altra forma, le brutture da me descritte ne’ Vermi e nelle Ombre: il mio libro non sarebbe stato che una pallida imitazione d’una mia stessa opera o di altre di simile stampo. Ho voluto invece seguire un cammino affatto opposto.

Ed a far pienamente intendere il mio concetto, è d’uopo che io tocchi brevemente di alcuni speciali caratteri de’ tempi nostri e di noi altri meridionali in particolare.

 

Alcuni speciali caratteri de’ tempi nostri

   Noi manchiamo di convinzioni e di princìpi: è questo il più spiccato carattere della presente generazione. Tutto assorti negli interessi materiali, noi sfuggiamo di occuparci di noi stessi; e fine supremo della vita poniamo il godimento materiale dell’oggi.

E, gittàti al di fuori di questi materiali interessi, noi non abbiamo nessuna fede, senza peraltro essere perfettamente increduli; non abbiamo nessun saldo convincimento, e sia pure un errore, un paradosso. Diciamo di credere alla esistenza di Dio, ma la nostra adorazione è tutta pel vitello d’oro. Non siamo atei, non siamo scettici, non siamo credenti, non siamo niente.

In quanto alla immortalità dell’anima, ai futuri destini dell’uomo, tutto ciò non ci riguarda; il to be or not to be (essere o non essere) ci è del tutto indifferente. Non osiamo apertamente dire che la fede nell’altra vita è una mera fandonia; ma ce ne ridiamo sotto i baffi.

 

Le contraddizioni dei nostri giorni

   Da questa mancanza di convinzioni di ogni sorta derivano le più strane e curiose contraddizioni che si osservano a’ dì nostri:

noi confondiamo la libertà di coscienza con l’assoluto indifferentismo su qualsivoglia credenza religiosa;

vogliamo l’indipendenza e la libertà, e non apprezziamo che ciò che è francese, inglese o giapponese, e non sappiamo perdonare al nostro vicino di avere una opinione contraria alla nostra;

vogliamo l’eguaglianza civile, e non ci vergogniamo di farci dare l’eccellenza da’nostri servi; gridiamo al mal governo, e non ci vogliamo prendere l’incomodo di andare a porre una scheda nell’urna;

predichiamo filantropia, e diamo croci e premi a chi inventa un modo novello di distruzione più pronta e più sicura, mentre lasciamo crepare di fame la virtù e l’ingegno;

diciamo di essere uomini positivi, e paghiamo 10.000 lire al mese a qualche saltatrice (= ballerina, soubrettina) più o meno in grido;

facciamo arrestare i ladruncoli di fazzoletti, e lasciamo andare a seggi governativi quelli che rubano i milioni;

vogliamo più o meno l’emancipazione della donna, e per poco non diamo la berlina a una povera signora che cammini sola per le strade;

insomma … ci crediamo uomini, e non siamo che scimmie.

   Questa mancanza di princìpi e di convinzioni fa sì che noi manchiamo eziandio di fermezza nei nostri propositi, di dignità personale e di rispetto di noi stessi.

Sempre servilmente ossequienti al potere ed alla forza, ci contentiamo di sparlarne in segreto, balestrando un’occhiata paurosa all’intorno per tèma di essere intesi; non dissimili in questo dai valletti che seggono oziosi nelle anticamere del loro padroni e che si disfogano a maledirli, salvo a correre a baciar loro le mani non appena li vèggano apparire in su la soglia.

 

La borghesia affarista

   Dall’un canto, le classi intelligenti, educate, ed anco istrutte, son magagnate dal tarlo della società presente che con novello vocabolo si è nominato affarismo: tarlo micidiale dell’anima, roditore di ogni nobile aspirazione morale, lento ma efficace distruttore di ogni principio di equità, di umana fratellanza e della divina voce della carità.

 

La plebe scioperata

   Da un altro canto, una sterminata classe di scioperati, che abborrono la fatica, e che per vivere, o per alimentare i loro vizi, debbono risolvere ogni giorno l’arduo problema di carpire una polizzetta da 5 lire dalla tasca dei loro amatissimi fratelli in Adamo, senza pertanto sfregarsi colle autorità di Pubblica Sicurezza.

 

I governi … civili?

   I governi civili, che schiudono carceri e all’uopo innalzano patiboli per colpire i reati contro la proprietà e la vita, non hanno saputo ancora trovare un premio alla virtù

   Ma che dico. I governi sanno pure trovare un premio per la più sfacciata immoralità, per la mezzanità proterva e boriosa, per la raffinata ipocrisia, per la codarda ed abbietta cortigianeria.

Vistosi emolumenti, alti uffizi, ciondoli e croci piovono addosso a gente immorale, ignorante, proterva, strisciante, vituperevole.

Siamo ogni dì contristati dallo scoraggiante spettacolo d’impieghi ottenuti per la impudicizia di donne disonorate, per la vergognosa condiscendenza di abbietti mariti, e non poche volte pel sacrificio di caste ed innocenti donzelle.

Ci nausea la vista perpetua di eleganti camorristi accolti e festeggiati nelle case patrizie e sfacciatamente sfolgoranti di un lusso, la cui origine dovrebbe fare arrossire il codice penale.

   Intanto, che cosa fanno i governi civili a pro dell’ingegno e della virtù? Colpiscono il ladro, se ha la malaccortezza di farsi ghermire nel momento che mette la mano nell’altrui tasca per rubare il portafogli, l’oriuolo o il moccichino; ma gli appiccano un ciondolo al petto, se ha l’abilità di deviare un milione.

E per la virtù, che si lascia trangosciare di stenti e si astiene, che cosa fate, o signori delle aule governative?

Ed alla vecchiezza dell’onesto operaio, che ha vissuto illibatissima vita, qual riposo assicurate voi? L’ospizio de’ poveri o l’ospedale! Ed alla vedova ed agli orfani di quell’integerrimo padre di famiglia, che abbreviò la vita per sostenere la moglie e i figliuoli, quale sorte serbate? Alla vedova, il pane della privata carità; ai figliuoli maschi, il supplizio del servizio militare; alle femmine, il postribolo.

I mali che travagliano l’Italia

   Abbiamo in Italia la spaventevole cifra di 16 milioni di analfabeti, di cui, per carità del suolo nativo, non dirò quanta parte spetta alla nostra Napoli. Migliaia e migliaia di cretini vegetano in alcune vallate delle Alpi e dell’Appennino; i quali non hanno dell’uomo che il beffardo ironico nome. Altri migliaia e migliaia languiscono di febbri perpetue prodotte dalla malaria, dallo scarso e malsano nutrimento, dalle estenuanti fatiche, dalle protratte vigilie.

   Né vale il dire che anche altrove questi mali travagliano le popolazioni. Altrove, è colpa della terra e del clima; appo noi, è colpa dell’uomo.

Egli è certo che la vita in Italia è più breve che altrove: vergognoso oltraggio alla Provvidenza che ci largì tutt’i tesori della sua inesauribile benevolenza!

Laddove le altre nazioni, meno favorite di noi, studiano i mezzi di accrescere il loro benessere e la loro civile e morale perfezione, noi studiamo i mezzi di renderci frustànei (= inutili, vani, infruttuosi) i doni del cielo.

Ingegni sublimi ci lasciarono pagine immortali, tesori di scienza e di ben vivere sociale; e noi, poscia di aver lasciato morir d’inedia que’ sublimi ingegni nel tempo in che furono in mezzo a noi, oggidì ci teniamo paghi di far pompa de’ loro volumi in su i palchetti delle nostre librerie.

 

I misteri di Napoli sono i misteri della virtù

   Premesse queste cose per le generali, additerò brevemente quale è lo scopo del mio lavoro.

Occulti fatti si compiono nel seno delle popolose città. I grandi delitti, le opere inique, i luttuosi avvenimenti, sono rivelati dalle cronache della stampa periodica: i lettori ricercano con avidità questo pasto giornaliero della loro curiosità.

Ma vi è una categoria di fatti che non hanno altro testimone che l’occhio di Dio, fatti che onorano la specie umana …

Il CONTAGIO DEL VIZIO, che è una delle più grandi piaghe delle popolose città, troverebbe efficace correttivo nello ESEMPIO DEL BENE, dove la stampa si occupasse a ricercare i misteri della virtù con lo stesso ardore onde si occupa a ricercare e rivelare i turpi fatti del vizio.

“I Misteri di Napoli” saranno dunque la rivelazione degli occulti splendori dell’anima sofferente nelle torture sociali.

 

 


Il male: opera di Dio o dell’uomo?

   Un fatto costante e terribile sembra, agli occhi degli stolti, che faccia brutta dissonanza nell’ordine maraviglioso della creazione: l’esistenza del male.

Questa quistione, non risoluta o mal risoluta, ha portato l’uomo al dubbio, allo scetticismo: è essa che crea gli atei, gli empi e i semi-credenti.

   Ma è forse Iddio che ha creato il male? È forse colpa dell’Artefice se una mano inesperta guasta l’accordo della macchina, per proterva o stolta voglia di correggerla?

Il Supremo Artefice (dice l’insipiente) non doveva esporre l’opera sua ad essere guasta dall’uomo. E noi rispondiamo: – La guastano forse gli animali che popolano la terra? E vi sareste voi contentati di agguagliarvi alla condizione degli animali? Volete sconoscere la bontà di Dio, che vi creò Sua immagine, dotandovi del sublime dono della Ragione e del Libero Arbitrio?

   Il male è dunque incontrastabilmente l’opera dell’Uomo. Da millenni, ei si travaglia a rendersi felice, e non può: l’Ignoranza vi si oppone.

Ciò non pertanto, il raggio divino della Intelligenza superò gli ostacoli infiniti che l’Ignoranza le gittava tra’ piedi, e fece a palmo a palmo maravigliose conquiste sul paradiso perduto. Caddero l’un dopo l’altro gli sterminati massi che la tirannide dei potenti, coadiuvata dalla tirannide sacerdotale, avea innalzati a puntello di un esoso edificio di usurpazioni e di arbitrii.

   Quando l’orgogliosa potenza romana parea che volesse soffocare le immortali tradizioni dell’umana grandezza nello sfacelo d’ogni principio morale, il VERBO DI DIO UMANATO rialzò la creatura, promulgando un codice divino di giustizia, di fraternità, di amore. Ma la gran legge di amore fu affogata dalla nequizia delle tristi passioni, dalle smodate ambizioni, dall’obblio dei grandiosi destini dell’anima.

I re, i preti, i ricchi, i potenti elevarono altri codici informi su quello predicato dal Cristo.

La schiavitù, il feudalismo, la proprietà illimitata, il monopolio delle coscienze e de’ beni della terra, gli eserciti permanenti, la gleba muliebre, snaturamento della donna, gli omicidi giuridici, le guerre, ed altre moltissime di queste sociali cangrène, travagliarono e travagliano ancora l’inferma società tra spire torturanti.

   Ma Iddio trasse il bene dal seno stesso del male. Migliaia di martiri della virtù e dell’amore formano ogni dì la più splendida protesta contro la mala organizzazione sociale. Questa nube di anime che vola al cielo, gemente ancora delle sofferenze della vita, affretta ogni dì il compimento de’ nobili destini dell’uomo.

   Questa opera (“I Misteri di Napoli”) avrà dunque lo scopo di additare la virtù, cozzante co’ vizi della presente società e co’ mali inseparabili dai presenti ordinamenti sociali.

E’ storica la tela del mio racconto? Sono veri i personaggi di questo gran dramma? A questi quesiti non risponderò che una sola parola: LEGGETEMI”.

Considerazioni riassuntive su Francesco Mastriani

   Come si vede, dunque, “I misteri di Napoli” hanno proprio nulla a che spartire con “I Misteri di Parigi” di Eugenio Sue.

Mastriani non è certo l’equivalente di ciò che oggi sarebbe un autore di tele-novelas, né la sua opera narrativa può minimamente essere confusa, come a volta accade, con la “sceneggiata napoletana” che fu invece, nel bene e nel male, “inventata” solo nel 1919: in forma teatrale, dall’impiegato postale Enzo Lucio Murolo; ed in forma cinematografica, da Emanuele Rotondo, fondatore della “Miramare film”.

   Francesco Mastriani, dal canto suo, non si propone di “scavare nelle fogne della società, per mettere in evidenza tutto ciò che, ne’ diversi centri di civili popolazioni, è di più laido e nefando”, a pro di quei “lettori che ricercano con avidità questo pasto giornaliero della loro curiosità”, magari contribuendo, così, al “contagio del vizio”.

Vuole, invece, “additare la virtù”, che si manifesta proprio nelle circostanze più difficili, affinché “l’esempio del bene” possa contribuire a migliorare i “presenti ordinamenti sociali” e ad “affrettare ogni dì il compimento de’ nobili destini dell’uomo”.

   I suoi, più che romanzi, sono “studi storico-sociali”, saldamente fondati su:

– una precisa analisi della società del suo tempo : analisi che è, per molti aspetti, ancora attuale;

– una riflessione filosofica che, rifacendosi chiaramente a Pasquale Galluppi, si pone le grandi questioni metafisiche come l’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima, la giustizia ultra-terrena, e l’origine del male nel mondo; e addirittura, in alcuni punti, come sempre accade nei sinceri credenti, tocca finanche le vette della intuizione mistica; e confronta: La Bibbia – Apocalisse 6, 9-11).

.

Note

[49] Giuseppe Galasso – “Intervista sulla storia di Napoli”, Ed. Laterza, Bari, 1978.

[50] Vedi n°9 e nn°13-17 in “Il periodo del Viceregno spagnolo nel 1500”.

[51] Atanasio Mozzillo – “La Sirena inquietante”, Ed. Cooperativa Ci.Esse.Ti, 1983.

[52] Vedi nn°79-85 in “Il periodo del Viceregno spagnolo nel 1500”.

[53] Vedi nn°47-73 in “Il periodo del Viceregno spagnolo nel 1600”.

[54] Vedi nn°5-8; 37-43; 307-308 in “Il periodo borbonico dal 1790 al 1860”.

[55] Vedi nn°152 e segg. In “Il periodo liberale dal 1876 al 1887”.

[56] Domenico Rea – “Le illuminazioni di Mastriani” (1963) in “Opere”, Ed. Mondadori, 2005.

[57] Gustave Hérelle – “Un romanziere socialista a Napoli” in “Revue de Paris” 1894.

[58] Vedi nn°122 e segg. in “Il periodo liberale dal 1860 al 1876”.

[59] Vedi n°56 in “Il periodo liberale dal 1876 al 1887”. 

[60] Si veda la breve ma efficace rassegna fatta da Rea nel suo Saggio sopra citato.

[61] Matilde Serao in “Corriere di Napoli”, 7 gennaio 1891.

[62] Pasquale Galluppi, Autobiografia in Introduzione alle “Lettere filosofiche”, Ed. Signorelli, Milano 1967.

[63] Giuseppe Lo Cane – Biografia di Pasquale Galluppi in “Tropea Magazine”.

[64] Lo Cane, op. cit.

[65] Galluppi, Autobiografia, op. cit.

[66] Lo Cane, op. cit.

[67] Lo Cane, op. cit.

[68] Lo Cane, op. cit.

[69] Paolo Emilio Tulelli – “Intorno alla dottrina ed alla vita politica del Barone Pasquale Galluppi”, Accademia di scienze morali e politiche di Napoli, Stamperia della Règia Università, Napoli, 1865.

[70] Salvatore Ragonesi – “Pasquale Galluppi nella storia della filosofia europea”, in “Infosannio”, 20 marzo 2013.

.

   Questo interessante lavoro letterario è stato realizzato dallo scrittore

,

                                              Angelo Renzi 

,

                                                  e pubblicato sul

                       

.

   Egregio signor Angelo Renzi, i discendenti diretti dello scrittore Francesco Mastriani, Emilio e Rosario sono a sua disposizione per qualsiasi informazione, notizia o approfondimento inerente la figura letteraria del nostro illustre avo Francesco Mastriani.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Facebooktwitterpinterestlinkedintumblrmail

Invia un commento

Il tuo indirizzo email non viene pubblicato.